Una semplice questione di diritti…

Parigi 2019

di Stefano Manera – 18 marzo 2019

Verso la fine degli anni ’80 e inizi anni ’90 si faceva un gran parlare di ambiente, clima e inquinamento.

Il blocco sovietico era crollato da pochissimo, il mondo era cambiato e questo sembrava un sogno per i neoliberisti e i mondialisti.

La gente però non era del tutto stupida e iniziò a fare molte manifestazioni.

Come tutti gli adolescenti di quegli anni, ne approfittavo ovviamente anch’io per “bigiare” la scuola ogni tanto.

Frequentando un collegio, ho sempre avuto grosse difficoltà a partecipare alle manifestazioni, lo facevo a mio rischio e pericolo e ogni volta avevo una nota di demerito sulla condotta e venivo sempre additato come il reazionario scomodo e non allineato (sì, già al liceo!).

A quei tempi ci furono grandi campagne mediatiche, Naomi Klein scrisse il manifesto di quei giorni “No Logo” (ancora attualissimo), illustri intellettuali si schierarono apertamente nei confronti di questo movimento che sembrava diventare planetario (Noam Chomsky, Vandana Shiva, Eduardo Galeano, James Tobin e molti altri).

Il movimento nacque e si sviluppò con numerose iniziative di protesta contro i processi di globalizzazione dell’economia, contro gli accordi sul commercio internazionale, sanciti nell’ambito del WTO, si contestavano organismi come il G8, il Forum Economico Mondiale di Davos e alcune istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Inizialmente il movimento era guardato con benevolenza o semplicemente tenuto d’occhio.

Poi, improvvisa, giunse la svolta.

Il movimento fu equiparato a una organizzazione eversiva e iniziarono gli scontri.

Ricordiamo tutti la grande manifestazione di Seattle del 1999 e la grande manifestazione pacifista del G8 di Genova del 2001 come finirono.

Sappiamo bene che gli scontri furono in gran parte pilotati e che i famigerati e distruttivi black block erano pieni di infiltrati che avevano lo scopo di indurre a pensare che il movimento intero fosse pericoloso e quindi, da reprimere con la forza.

Seguirono poi gli anni del terrore, degli attentati, degli aeroporti militarizzati. Prendere un aereo divenne più difficile che entrare nei Navy Seals: vieni controllato, schedato, monitorato, scannerizzato.

E tutti a dire: “ma è per la nostra sicurezza! per la nostra libertà!”

Del resto, lo scopo della nascita di Al Qaeda è stato documentato fin troppo bene.

Da lì in poi i governi hanno riaffermato che alzare la testa non è possibile, sempre che tu a quella testa ci tenga.

Si è deciso che la soluzione era quella di creare una condizione di terrore cronico, di allarme perenne, di insicurezza generalizzata.

Addirittura hanno coniato lo slogan: “Esportiamo la democrazia”.

Se vivi nel terrore, non hai tempo di pensare ad altro. Il terrore legittima chi sta sopra di te ad occuparsene, ad espropriarti delle tue capacità e volontà decisionali. Le emergenze hanno regole proprie e tu, a quel punto, non conti più nulla.

Saranno altri a decidere per te e saranno legittimati.

Viviamo nel terrore e nell’emergenza dal 2001. Le ghiandole surrenali (e le gonadi) sono ormai raggrinzite.

Ieri a Parigi la storia si è ripetuta, nei “gilets jaunes” sono rispuntati i black block che hanno devastato Parigi, al che Macron ha annunciato che prenderà “decisioni forti, affinché quello che è accaduto non si ripeta”.

Nel frattempo il tentativo di indipendenza della Catalunia (voluto da un referendum popolare) è stato represso con la forza bruta.

Nel frattempo la Brexit (voluta da un referendum popolare) pare non si faccia più.

Nel frattempo le proteste in Sud America sono represse nel sangue con decine di morti.

Nel frattempo i tuoi diritti alla salute (il tuo bene più prezioso) vengono minati giorno dopo giorno per dare spazio e agio alle multinazionali (farmaci, assicurazioni, biotech) che ti governeranno dal concepimento alla morte.

Un bel mondo davvero, non c’è che dire.

Genova 2001

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