di Ornella Medda.
Alle 21 di martedì 30 settembre 1975, un metronotte romano, passando accanto ad un auto sentì distinti dei lamenti di donna.
All’apertura del portabagagli, da un sacco dell’immondizia uscì una ragazza agonizzante, imbrattata di sangue, apparentemente viva.
Donatella Colasanti, sopravvissuta (fingendosi morta) al “massacro del Circeo“. Delitto d’odio misogino e di censo (le due ragazze erano figlie delle borgate)
La sua compagna di sventura, Rosaria Lopez, era li di fianco, in un altro sacco nero. Morta, affogata dopo 36 ore di stupro e sevizie, perpetrate da tre “bravi ragazzi” della Roma bene: Giovanni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, che mentre decidevano come far sparire i corpi, erano allegramente andati a mangiare una pizza.
Non si riprese mai Donatella, non smise mai di chiedere giustizia, in quell’Italia così arretrata sui diritti femminili e sulla sessualità, tabù immenso, ieri come oggi.
Non si riprese mai, camminando giorno dopo giorno fianco a fianco con la morte.
Se n’è andata in silenzio, mangiata dalla malattia, nel 2005, 30 anni dopo i fatti che fecero deragliare la sua vita.
Angelo Izzo, rimesso in libertà, uccise e uccise ancora due donne, moglie e figlia di un pentito della sacra corona unita, Maria Carmela Linciano (49 anni) e Valentina Maiorano (14 anni).
Le ultime parole di Donatella, furono per queste due donne: “Battiamoci per la verità”.
Ma quale verità, quale giustizia malata, mi chiedo, può mai essere quella che affida Angelo Izzo ai servizi sociali, dandogli un ruolo in una cooperativa, mettendolo a contatto con persone in stato di bisogno.
Quale verità, quale giustizia malata, può averlo riconsegnato (lui e i suoi prodi amici), alla dignità del mondo.
Un reato, QUEL REATO, doveva consegnarli al fine pena mai.