La bomba atomica persa in fondo al Mediterraneo

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Nel 1966, l’arsenale nucleare degli Stati Uniti aveva raggiunto ormai le trentamila bombe, il quadruplo dell’Unione Sovietica; ma i cittadini americani – esclusi quelli coinvolti nel programma atomico militare – non avevano mai visto una bomba atomica neppure in fotografia. Ne ebbero la prima occasione nella primavera di quell’anno.

Fu una presentazione inusuale: decine di giornalisti a bordo di una nave della marina militare statunitense si videro sfilare a fianco un’altra nave, la USS Petrel, che esibiva sul ponte – come un trofeo o un grosso pesce appena catturato – una Mark 28 recuperata faticosamente dal fondo del mar Mediterraneo. In quell’occasione c’era davvero qualcosa da festeggiare: una bomba H persa per più di due mesi vicino a uno sperduto paesino spagnolo era stata ritrovata.

La storia comincia il 17 gennaio 1966, intorno alle dieci e un quarto del mattino, quando un B-52 dell’operazione Chrome Dome si sta avvicinando all’aerocisterna per il suo secondo rifornimento in volo, pochi chilometri al largo della costa sudorientale della Spagna. Chrome Dome, cominciata nel 1960, consisteva nel tenere costantemente in volo un certo numero di bombardieri che trasportavano testate termonucleari (la cosiddetta airborne alert) e farli volare in lunghi percorsi fino al confine con l’Unione Sovietica e il blocco orientale.

Uno dei piani di volo partiva dalla Florida, passava da Gibilterra e attraversava il Mediterraneo occidentale; percorreva due volte l’intera lunghezza del Mar Adriatico, tra Italia e Jugoslavia, e poi ritornava indietro.

Il B-52 era partito dagli Stati Uniti diciassette ore prima e aveva bisogno di altro carburante per il lungo viaggio verso casa. Qualcosa andò storto nella manovra di avvicinamento: l’aereo colpì il tubo dell’aerocisterna e si danneggiò gravemente. Scoppiò un incendio.

Le fiamme risalirono il tubo e fecero esplodere i centocinquantamila litri di carburante dell’aerocisterna, uccidendo all’istante tutti i quattro membri dell’equipaggio. Altri tre morirono sul bombardiere, mentre in quattro riuscirono a lanciarsi con il paracadute e a salvarsi. Di questi, l’operatore radar Ivans Buchanan venne ritrovato svenuto in un campo, ancora legato al sedile eiettabile, ferito alla schiena e con una spalla rotta, da alcuni abitanti di un villaggio vicino.

Nell’arco di qualche ora arrivò sulla costa dell’Andalusia, la più vicina all’area dell’incidente, la prima squadra di militari americani della base di Torrejón, a cinquecento chilometri di distanza, con la missione di scoprire che fine avessero fatto le quattro bombe H di tipo Mark 28 a bordo dell’aereo. Non c’era stata una detonazione nucleare, di questo le autorità potevano essere sicure, ma per il resto le testate potevano essere finite ovunque in un’area di centinaia di chilometri quadrati.

La prima bomba fu scoperta al tramonto, intatta, a duecento metri dalla spiaggia del paesino di Palomares: era stata portata con dolcezza al suolo, grazie all’apertura di uno dei paracadute. Non era andata così bene con la seconda Mark 28. Il suo esplosivo ad alto potenziale – quello che serve a comprimere il materiale radioattivo e a scatenare un’esplosione termonucleare – era detonato, per fortuna solo in parte, all’impatto con il terreno nelle colline deserte dietro il cimitero di Palomares. Il cratere era largo sei metri e venne scoperto quasi ventiquattr’ore dopo, da un elicottero; pezzi di plutonio altamente radioattivo erano sparsi per la zona circostante.

Poco più tardi venne trovata la terza bomba, che aveva mancato una fattoria per poche decine di metri. Anche in quel caso, l’esplosivo era detonato parzialmente, spargendo plutonio per i campi di pomodoro. In quell’epoca l’esercito americano non aveva protocolli per la contaminazione da plutonio, né una strumentazione adeguata a rilevarlo: si prospettava un lungo e snervante lavoro di bonifica. E quel che era peggio era che una bomba H mancava ancora all’appello.

Palomares era una comunità di poveri agricoltori andalusi, a poca distanza dalle acque del Mediterraneo. Aveva più o meno duemila abitanti ed era così isolata da non essere registrata su gran parte delle mappe della Spagna meridionale. L’elettricità era arrivata solo otto anni prima; l’acqua corrente doveva ancora arrivare. In tutto il paese c’erano solo due automobili e un telefono.

Da un giorno all’altro, la remota comunità fuori dal tempo nella Spagna profonda si trovò al centro di uno degli incidenti più delicati della Guerra Fredda. Truppe americane percorsero le campagne circostanti spalla contro spalla nel tentativo di localizzare la Mark 28 mancante, invano. La ricerca venne sospesa dopo sei settimane, ma nel frattempo il paesino di Palomares era stato invaso da giornalisti inviati provenienti dalle testate di tutto il mondo.

Poche notizie sull’incidente erano trapelate fino ad allora, ma fu difficile, per l’aeronautica militare americana, negare ai giornalisti che si stesse cercando qualcosa di grosso e di molto radioattivo, dato che davanti ai loro occhi si muovevano per i campi centinaia di militari muniti di contatore Geiger.

Per più di un mese gli Stati Uniti si rifiutarono di rivelare che cosa stessero cercando, d’accordo con il regime di Franco, preoccupato per gli eventuali danni al turismo nell’area. Ci furono diverse manifestazioni non molto pacifiche davanti all’ambasciata americana di Madrid. Furono giorni d’oro per la propaganda sovietica, che ebbe gioco facile a parlare di “disastro” nel sud della Spagna. Finalmente, ai primi di marzo, arrivò l’ammissione ufficiale che una bomba nucleare non si trovava più.

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Barili di suolo contaminato in attesa di essere trasferiti negli Stati Uniti, Palomares, 1966

Nonostante fossero state trovate tracce di plutonio intorno a Palomares, i residenti non vennero evacuati e le autorità spagnole e americane insistettero che non c’era alcun rischio per gli abitanti, né per i prodotti agricoli della zona. In realtà, tonnellate di ortaggi che vennero raccolti in tutta fretta con i machete e incendiati perché contaminati. Altre centinaia di tonnellate di suolo inquinato dal plutonio vennero rimosse e mandate in un impianto di smaltimento in South Carolina.

L’ambasciatore americano Biddle Duke, nel caso gli annunci non fossero sufficienti, andò con la famiglia in vacanza in una spiaggia vicino a Palomares e si fece fotografare mentre, sorridente, faceva il bagno insieme a un ministro spagnolo e a un comandante militare della zona, a poca distanza da dove erano cadute le bombe. La TV di stato del regime franchista coprì quel buen baño con sottofondo musicale e commento rassicurante.

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Gli scienziati e i tecnici inviati dagli Stati Uniti per cercare di trovare la quarta bomba identificarono un’area di venti chilometri quadrati al largo della costa dove, in base ai venti e al luogo dell’incidente aereo, era possibile che fosse caduta la quarta bomba. Un imponente corpo di spedizione formato da aerei, elicotteri e una ventina di navi, con quattro sottomarini, si mise alla ricerca.

I giornalisti che si occupavano della storia notavano spesso la straordinaria coincidenza con il film di James Bond appena uscito: in Thunderball, l’agente 007 ha proprio la missione di recuperare dal mare alcune bombe atomiche che sono andate perdute. Il comandante della missione, l’ammiraglio William S. Guest, non era molto ottimista: «Non è come cercare un ago in un pagliaio – dichiarò – è come cercare la cruna di un ago, al buio, in un campo pieno di balle di fieno».

Quasi due mesi dopo l’incidente, il 15 marzo, l’equipaggio del sottomarino Alvin localizzò la bomba a cinquecento metri di profondità. Le laboriose operazioni di recupero sembrarono colpite dalla sfortuna quando, nove giorni dopo, il cavo che stava trainando la bomba – pesante diverse tonnellate – si ruppe e la Mark 28 tornò sul fondo del mare. Fu l’Alvin a trovarla di nuovo, una settimana dopo, e questa volta il cavo tenne.

I militari, evidentemente sollevati, invitarono i giornalisti a bordo della nave di Guest per lo spettacolo della bomba ritrovata: l’operazione di recupero più costosa della storia della marina militare americana (circa dieci milioni di dollari dell’epoca) era arrivata alla conclusione. Gli Stati Uniti dovettero cedere la base militare di Torrejón al controllo della Nato e accettare il divieto del governo spagnolo a sorvolare il paese con bombe nucleari.

L’amministrazione di Lyndon Johnson discusse se interrompere l’airborne alert, ma i militari riuscirono a convincere il presidente che quel dispiego di forze fosse ancora un deterrente necessario. Lyndon Johnson si limitò a ridurre il numero dei voli quotidiani a quattro.

Le conseguenze dell’incidente di Palomares sono a tutt’oggi difficili da valutare. Il plutonio è estremamente pericoloso se inalato o ingerito, e non si sa esattamente quanto pesassero i nuclei radioattivi delle bombe che detonarono parzialmente – siamo nell’ordine di qualche chilogrammo – ma gli esami periodici a cui vengono sottoposti gli abitanti dell’area non hanno rivelato un aumento sospetto di malattie che possano essere collegate alla radioattività. A partire dal 2009 gli esami di controllo sono diventati facoltativi.

Tre aree intorno al paese rimangono ancora oggi recintate e inaccessibili perché contaminate, a quasi cinquant’anni dall’incidente. Le operazioni di bonifica non sono mai state portate a termine: Spagna e Stati Uniti sono sembrati più volte, l’ultima nel 2012, prossimi a una soluzione definitiva su come completare il lavoro, come farlo e soprattutto a chi farlo pagare, ma a oggi nessun accordo è stato raggiunto.

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