di C.M.
Centro commerciale, interno giorno, un pezzo di weekend che è sempre così per noi, quando è inverno e fa freddo, e magari piove. Tengo per mano mio figlio (sono campionessa in carica di Cose Fatte Tenendo un Figlio Autistico) ma l’altra mano non sempre vedo dove sta. Conseguenza, mio figlio tasta una ragazza.
“Signora, suo figlio mi ha tastata”
“Oddio mi scusi”
“Ma glielo vuole dire che non si tastano le persone?”
“Mi scusi, mio figlio è disabile”
“Oddio mi scusi”
La confusione è di tutte e due. La mia nasce soprattutto dalla sua faccia che cambia di colpo quando le dico che mio figlio è disabile. Perché ha ragione, comunque lo devo dire, a mio figlio, che non si tastano le persone, e perché un tempo ero così anch’io, ero dall’altra parte e di un campo di grano non ne sapevo una beata mazza.
Come una recente uscita infelice di un politico ha rivelato, esiste ancora gente convinta che le persone autistiche siano tutte come Dustin Hoffman in Rain Man: strane, difficili, prive di emozioni e di collegamento con la realtà, ma dotate di facoltà straordinarie.
La realtà è molto diversa: esistono tanti tipi di autismo quante le persone affette, più gravi o meno gravi. Ma il concetto chiave da imparare per capire l’autismo, e le persone che ci combattono tutti i giorni (le riconosci dalla gastrite e dai capelli ritti), è quello di funzionamento.
In parole povere, gli autistici ad alto funzionamento sono quelli che hanno un’intelligenza normale o anche superiore al normale, che sanno parlare, leggere, scrivere, e magari suonare il pianoforte. Quelli a basso funzionamento non sanno parlare, non sanno leggere, non sanno scrivere, non riescono a imparare. Tra questi due estremi c’è di tutto, anche bambini come il mio, che è affettuosissimo ma parla poco e con grande sforzo, che non sa leggere, che se fosse per lui non distinguerebbe il giorno dalla notte, che non si può lasciare per un po’ solo in casa dicendo “non aprire a nessuno e non accendere il gas”, anche se ormai ha 12 anni. Non è una buona idea, di fatto, neanche lasciarlo per un po’ da solo in una stanza perché potrebbe distruggere qualcosa o farsi male, o entrambe le cose.
Il primo problema di una persona autistica è quindi l’assistenza. Un’assistenza che, fino a 10 anni o giù di lì, può garantire una buona scuola a tempo pieno, dove ce n’è la possibilità. Ma il resto del giorno? Nei fine settimana? D’estate? Quello che è un problema di tutti i genitori, per un bambino autistico si decuplica in termini di fatica, numero di persone impegnate e soldi da pagare. Anche perché non è sempre facile trovare qualcosa che lo interessi e lo intrattenga.
Altro punto dolente, l’apprendimento: che si tratti di autonomie personali (vestirsi, lavarsi, andare in bagno) o di abilità cognitive (leggere, scrivere, riconoscere colori, quantità e funzioni delle cose), un ragazzo autistico ha bisogno che ogni cosa si ripeta centinaia e centinaia di volte, che sia mostrata, illustrata, divisa in compiti più piccoli.
Il Servizio sanitario nazionale assicura ai bambini autistici, e nemmeno a tutti, quattro ore a settimana di riabilitazione, spesso fatta con metodi e principi inadatti a questa patologia. Arriva poi il giorno in cui il bambino viene “dimesso”, generalmente attorno ai 10-12 anni. Non perché è guarito: perché il centro di riabilitazione a quell’età lo ritiene una causa persa.
Una legge sulla cura dell’autismo è ferma da anni in Parlamento. Questo benché ormai da anni il SINPIA, l’associazione che riunisce i neuropsichiatri infantili d’Italia, abbia prodotto un documento sulle esigenze di cura delle persone autistiche, e sui metodi che sono da considerare validi.
L’autismo è una sfida a tutta la nostra logica, perché rende faticosissimo quello che tutti noi consideriamo la normalità. O meglio, perché svela quanta organizzazione è necessaria alla nostra mente per renderci, con tutte le nostre stranezze, adatti all’esistenza e capaci di imparare.