11 ottobre 2013: I rifugiati di una nave che sta affondando chiamano ripetutamente la Guardia Costiera italiana da un telefono satellitare per essere salvati, ma il loro SOS non viene preso sul serio. La barca, che trasportava più di 400 persone, è stata bersaglio di spari provenienti da una nave libica la sera precedente. Nonostante le autorità italiane e poi quelle Maltesi fossero state avvisate della situazione di emergenza dei passeggeri, il salvataggio è stato ritardato di diverse ore e la motovedetta è arrivata sul posto un’ora dopo che la barca era già affondata. Più di 200 persone sono morte, solo 212 sono state salvate.
Che cosa sarebbe accaduto se questi profughi avessero avuto la possibilità di effettuare una seconda chiamata ad un numero telefonico indipendente, attraverso il quale un gruppo della società civile potesse lanciare l‘allarme e mettere immediatamente le autorità sotto pressione per salvare le persone in pericolo?
Un anno dopo la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre e il caso »left to die boat« sopra ricordato, la situazione è ancora drammatica. Nonostante l‘operazione militare italiana “Mare Nostrum” abbia salvato circa 100.000 rifugiati e profughi negli ultimi 11 mesi, nella sola regione del Mediterraneo centrale più di 1.300 profughi sono diventate nuove vittime del regime di confine europeo. Nei primi mesi del 2014, abbiamo assistito a un più elevato numero di morti alle frontiere esterne dell‘UE: il 20 gennaio, 12 rifugiati sono deceduti dopo che la loro imbarcazione è affondata perché trainata a velocità elevata dalla Guardia Costiera greca che voleva respingere i profughi verso la costa turca.
Il 6 febbraio 2014, le guardie di frontiera spagnole hanno sparato proiettili di gomma sui profughi che tentavano di entrare a nuoto nell’enclave spagnola di Ceuta. Più di 14 persone sono state uccise.
Questi casi non sono isolati, anzi sono i più rappresentativi di una lunga lista di violazioni mortali commesse contro i profughi in mare in tutto il Mediterraneo. Queste morti avrebbero potuto essere impedite se la società civile fosse stata informata del disastro imminente ed avesse esercitato il suo potere di pressione prima piuttosto che dopo gli incidenti? Non possiamo stare a guardare passivamente mentre queste tragedie si ripetono. Non ci accontentiamo più di condannare tali violazioni dopo gli incidenti. Crediamo che una rete alternativa di allarme, creata dalla società civile su entrambe le sponde del Mediterraneo, possa fare la differenza.
Non abbiamo una squadra di soccorso né possiamo fornire protezione diretta. Siamo consapevoli dei limiti delle nostre capacità e della natura temporanea e precaria della nostra iniziativa. Quello che vogliamo è riuscire a dare immediatamente l‘allarme quando rifugiati e profughi che si trovino
in situazioni di pericolo in mare non vengano soccorsi con la dovuta urgenza. Vogliamo documentare in tempo reale e scandalizzare l‘opinione pubblica quando i profughi sono vittime di repressioni, di operazioni di respingimento o vengono rinviati in paesi come la Libia, dove i diritti dei profughi sono continuamente violati. Vogliamo intervenire facendo pressione politica e mobilizzando l‘opinione pubblica contro le ingiustizie quotidiane alle frontiere esterne dell‘Unione Europea.
Sappiamo che questo tipo di pressione può essere efficace perché è già utilizzato da anni da alcune persone che, attraverso legami familiari o di solidarietà, hanno ricevuto le chiamate di profughi in mare, allertato le autorità e verificato che le operazioni di salvataggio fossero portate a termine. Vogliamo ampliare e rafforzare questa rete di persone, rivendicandone un ruolo politico nel sostenere i diritti dei profughi e la libertà di movimento. Per questo vogliamo creare un network alternativo di allarme – in stretta collaborazione con il progetto Watch The Med – attraverso un numero di emergenza raggiungibile 24h/24 e 7g/7 a partire dal 10 ottobre 2014.
Questo network sarà gestito da attivisti per i diritti umani su entrambe le sponde del Mediterraneo, e sarà composto da un team multilingue. A tutte le persone
in pericolo in mare, consiglieremo di allertare in primo luogo le istituzioni di soccorso ufficiali competenti. In secondo luogo, anche noi chiameremo le Guardie Costiere e monitoreremo le loro risposte, facendo loro sapere che siamo informati e che le “controlliamo“. Se le istituzioni non rispondessero alle loro responsabilità di salvataggio, metteremo in atto ogni mezzo immaginabile di pressione politica e pubblica per costringerli ad agire. Daremo l’allarme ai capitani delle navi mercantili intorno alla zona, informeremo giornalisti a livello internazionale, chiederemo il sostegno dei leader religiosi politicamente attivi di tutte le fedi, così come simpatizzanti e sostenitori noti. Mobilizzeremo i cyber-attivisti creando una campagna in tempo reale e chiameremo tutti a contribuire alla creazione di ulteriori forme d’intervento.
I casi come il »left to die boat« e le violazioni dei diritti umani commesse da parte dell‘Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne Frontex e delle Guardie Costiere del Mediterraneo devono cessare immediatamente. Abbiamo bisogno di una rete della società civile su entrambe le sponde del Mediterraneo, che possa esercitare pressioni politiche per il rispetto della vita e dei diritti dei profughi. E noi vogliamo farne parte.
Un tale network di allarme alternativo sarebbe un primo ma urgente passo verso una zona Euro-Mediterranea caratterizzata non da un regime di frontiera mortale, ma dalla solidarietà e dal diritto alla protezione e alla libertà di movimento.