La storia siamo noi – Gli orfani e l’Italia

La trasmissione La Storia Siamo Noi di Giovanni Minoli linkata per chi non riesce a visualizzare dal sito Rai.tv causa “malfunzionamento” dello script silverlight …


video
play-sharp-fill

Figli di nessuno.

Nel 2001 il Tribunale italiano aveva stabilito con la Legge 149 che gli orfanotrofi venissero chiusi entro la fine del 2006 e i minori trasferiti in case-famiglia, oppure, ove possibile, presso famiglie affidatarie o adottive. Oggi quindi l’istituto di una volta dai lunghi corridoi e dagli stanzoni pieni di letti non dovrebbe esistere più, eppure ce ne sono ancora molti.

Al posto di quelli che sono stati chiusi o comunque trasformati ci sono strutture di tipo familiare più piccole e accoglienti, dove i bambini conducono una vita più simile a quella ‘normale’. Ma il problema non è stato risolto: 300mila sono i minori ‘fuori dalla propria famiglia di origine’, così come ci dice Marco Griffini, il Presidente dell’associazione ‘Amici dei bambini’: «Oggi abbiamo creato una nuova categoria che sono i ‘fuori famiglia’, gli orfani virtuali: la famiglia da qualche parte la hanno, ma è virtuale, qualcuno è in carcere, altri nelle comunità di recupero. È brutto che in Italia oggi non si sappia neanche precisamente quanti siano questi bambini, si dice che sono circa 34.000 e c?è il rischio che vengano dimenticati».

Di questi, circa 14mila provengono da famiglie in difficoltà e sono stati accolti in case-famiglia, ovvero in strutture che cercano di riprodurre un ambiente famigliare e che quindi per legge non possono ospitare più di 12 bambini. Altri 17mila sono stati dati temporaneamente in affido famigliare finché non rientreranno nella loro famiglia di origine, ma questo non accade sempre, anzi accade raramente.

 Ad ogni modo tutti questi bambini, che aspettano di trovare una famiglia, vengono assistiti solo fino al raggiungimento della maggiore età.

La Legge 149 del 2001

La legge 28 marzo 2001, n.149 consiste in ‘Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n.184, recante Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile’. Disciplina quindi i diritti dei minori riguardo alla famiglia, all’affido e all’adozione. E prevede, tra le altre cose che il minore abbia diritto ad avere una famiglia e che qualora questa presenti problemi di affido, abbia diritto ad essere affidato temporaneamente da un’altra famiglia o istituto. L’istituto a sua volta non deve ospitare più di 12 bambini e deve rispondere a dei requisiti che lo portino ad assolvere il più possibile le funzioni della famiglia.

 In Italia però ci sono ancora troppi istituti di vecchio stampo: si trovano soprattutto al sud e in particolare in Campania, Sicilia e Calabria, regioni che faticano di più ad attuare la nuova legge. Nel 2001 anno in cui è stata varata la legge, gli orfanotrofi in attività erano 52 e ospitavano 515 bambini: gli ultimi dati sono stati raccolti nel maggio del 2007 dall’Istituto degli Innocenti di Firenze, che ha così monitorato la situazione degli orfanotrofi: due sono stati definitivamente chiusi, 30 si sono trasformati in comunità, 20 sono ancora aperti e ospitano 137 bambini.

 Molte sono le strutture in trasformazione, ma non sono comunque in grado di rispondere alle normative della 149, è così che sono nate, come spiega Antonio Diliberto, il Presidente del ‘Centro padre nostro’: «Le cosiddette comunità in cartongesso. Questo perché gli interventi strutturali non sono stati seguiti da quelli metodologici». Ciò vuol dire che molti stanzoni dei vecchi istituti sono stati divisi da pareti in cartongesso, ma che di fatto la struttura e l’organizzazione sono rimaste le stesse: un edificio pieno di bambini e tante stanzette.

Cause principali di abbandono

Le cause principali di abbandono riguardano le difficoltà economiche della famiglia (33%), l’assenza dei genitori, l’abuso e il maltrattamento. In Italia sono ben 2 milioni e mezzo le famiglie che vivono al di sotto della cosiddetta soglia di povertà, molte di queste si trovano ancora una volta al sud, dove le famiglie sono più numerose ed è più facile trovare genitori soli e sottoccupati.

L’Istituto degli Innocenti

Gli orfani hanno sempre colpito la fantasia popolare, pensiamo al romanzo Oliver Twist, oppure al Monello di Charlie Chaplin (1921). Fortunatamente però hanno colpito anche grandi persone di cuore, che della vita e del bene degli orfani hanno fatto la loro missione.

 L’Istituto degli Innocenti di Firenze, che prende il nome dall’episodio biblico della stage degli innocenti, è stata la prima istituzione europea dedicata all’assistenza dei trovatelli. Fondato nel 1420 per volere testamentario di un mercante di Prato, l’istituto nasce come un ospizio dove la ragazze madri per motivi di povertà o mancanza di latte abbandonavano i loro figlia affidandoli alla carità cristiana. Le donne lasciavano i bambini su una ruota girevole in pietra, la cosiddetta ‘rota’, restata in uso fino al 1875, che girava portando i figli al riparo. La ruota è stata concepita per la prima vota da Papa Innocenzo III dopo essere rimasto profondamente commosso dal fatto che dei bambini piccolissimi venissero gettati nel Tevere, oppure in mezzo al letame. Ideò quindi una maniera anonima di abbandonare i bambini che in qualche modo li avrebbe tutelati. Le madri, che con questo sistema non venivano viste, spesso lasciavano insieme ai bambini delle lettere, dei braccialetti oppure delle medaglie spezzate, con le quali speravano di ottenere un ricongiungimento con i figli in tempi migliori. Purtroppo sono pochissimi coloro che hanno ritrovato la mamma, così come le madri che tornavano a riprendersi i figli.

La maggior parte di questi bambini però si ammalava e moriva. Quelli sopravvissuti venivano secolarizzati e avviati rapidamente al mondo del lavoro.

Gli orfani di guerra

Quando si pensa alla guerra spesso si dimenticano tutti quei bambini rimasti senza un padre e talvolta anche senza una madre a causa della brutalità del conflitto.

In Italia si contano 280mila orfani nella sola Prima guerra mondiale, e 14mila nella Seconda. Nel corso del ‘900 poi tantissimi sono gli orfani di genitori morti per incidenti di lavoro.

Una delle prime vittime della guerra quindi è l’infanzia: è sempre stato così e continua a esserlo. Gli orfani tuttora iscritti all”Associazione dei caduti in guerra’ sono ufficialmente 10mila, ma è una stima per difetto.

L’educazione nei convitti durante la guerra era estremamente rigida, qualcuno la definisce paramilitare. Erano molto frequenti infatti le punizioni fisiche. 

Riportiamo due brevi testimonianze di un uomo e di una donna vittime della Seconda guerra mondiale doppiamente, come uomini e come orfani.

Rosaria Mangiapelo: «Vivevamo ad Alatri, vicino Frosinone. Lì c’era mia nonna e tutti i miei zii, ma loro se ne fregavano, si son presi la roba nostra e non ci hanno aiutato a me e a mia mamma.

Sono stata la prima ad andare in collegio il 1 gennaio del ’45: la mattina ci svegliavano verso le sette. Ci lavavamo con dell’acqua gelata. Da mangiare ce lo davano, ma ce lo dovevamo far bastare. Avevamo molto lavoro come sarte: molte persone, anche contesse, si facevano fare i corredi da noi. Stavamo male, eravamo piccole, e non potevamo nemmeno ribellarci perché le botte erano tante. Allora stavamo zitte e basta. Facevamo il bagno una volta a settimana: le prime volte era triste perché in quell’occasione ci cambiavano le mutandine e per far vedere chi era più pulita e chi più sporca ce le mettevano in testa’questo me lo ricorderò in eterno. Quando stai lì non pensi più a niente, tanto ci devi stare. È un abbandono, di tutto’Ma ogni tanto ti veniva a mente la memoria e allora piangevi».

Bruno Calasanti: «Papà era ferito gravemente. Nel ’54 sono entrato all’ospizio di Rieti e dall’oggi al domani ho pensato che il mio papà non mi voleva bene. Eravamo tanti, quando mi presentai dalla madre superiora, una bella donna grande col vocione roco, mi fece subito vedere un nervo e disse: ‘Se qui non filate dritto sono guai!’ In particolare mi ricordo che mentre stavamo dicendo la preghiera durante il pasto, c’era un istitutore che mi ha gonfiato la faccia solo perché avevo fatto uno sguardo a un ragazzo di fronte a me. L’istruttore si chiamava Raffaele, lo ho in mente, non lo scorderò mai, mi ha fatto proprio male. Si sentiva tanto la mancanza della famiglia, e a me nessuno mi aveva preparato a quella cosa, dolcemente. La mia infanzia mi è stata rubata perché mi sono sentito tradito, però non potevo capire le esigenze che aveva la mia famiglia. Solo oggi le capisco».

Uomini speciali e istituti speciali

Dopo la guerra persone di grande formazione e carità si sono occupate degli orfani, tra questi spiccano personalità quali don Minozzi, don Gnocchi e don Zeno.

Don Minozzi nel 1919 fonda ad Amatrice, vicino Roma, l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia: si tratta del primo istituto per gli orfani di guerra. A questo faranno seguito quelli di Potenza e Gioia del Colle, e poi ancora centinaia di istituzioni nell’intero Mezzogiorno tra orfanotrofi, scuole, asili, centri di formazione professionale di tipo agrario e di indirizzo artigianale.

Don Gnocchi (che era egli stesso un orfano), dopo una vita spesa in nome dell’assistenza ai bambini, si è occupato in particolare dei ‘mutilatini’ ovvero dei bambini rimasti mutilati a causa delle bombe. Li accoglieva ed educava, insieme agli orfani, nell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio. Nel ’46 si contavano circa 14mila bambini mutilati.

Un altro personaggio che negli anni ’50 ha sperimentato nuove forme di assistenza per l’infanzia è Don Zeno Saltini. Questi nel ’48 fonda Nomadelfia, un luogo nei pressi di Grosseto dove si vive in comunità (tutti i beni sono in comune) accogliendo e crescendo gli orfani in affido. L’idea di Nomadelfia viene suggerita a Don Zeno nel 1941 quando una giovane studentessa, Irene, scappata di casa, si presenta da lui dichiarandosi disposta a far da mamma ai bambini orfani. Don Zeno, con l’approvazione del Vescovo, le affida quindi i più piccoli. Nasce così una maternità nuova, virginea: altre giovani donne la seguono, per tutti sono le ‘mamme di vocazione’.

Per approfondire la figura di Don Zeno Saltini e la sua comunità di Nomadelfia vedere la puntata “Don Zeno“.

Nuove forme di assistenza per gli orfani

Un altro luogo sperimentale è ‘La città dei ragazzi’, fondata nell’immediato dopoguerra con la denominazione di Opera per il Ragazzo della Strada, da Monsignor John Patrick Carroll-Abbing. Della sua particolarità ne parla Roberto Casentino che della ‘città’ ne è stato ospite da bambino: «Quando sono venuto qui nel ’61, venivo da un’altra esperienza fatta in collegio, abbastanza traumatica. Tra le differenze c’era l’ambiente che era grande dove ti potevi muovere, e poi era tutto diverso, pieno di attività e soprattutto di visi allegri. L’insegnamento era di far vivere i ragazzi in un ambiente dove riuscivano ad auto-governarsi. Sicuramente era molto più educativo questo modo che la repressione».

Infine ad Albano, a pochi chilometri da Roma, c’era l’Istituto nostra letizia’: qui i bambini studiavano all’aperto e li assisteva un medico pediatra, la signora Maria Benita Carolina, una sostenitrice del metodo della persuasione. Secondo la pediatra infatti i bambini per essere educati non dovevano essere repressi, quanto persuasi. Bisognava farli ragionare a portarli a capire attraverso la loro stessa esperienza cosa fosse giusto e cosa non lo fosse.

Il Martinitt

Negli anni ’60 però insieme alle nuove forme di assistenza sussistono ancora le vecchie strutture, tra queste è da ricordare il famoso Martinitt di Milano, fondato nel ‘500 che ha visto crescere molti bambini, alcuni dei quali oggi sono diventati uomini di successo. Ricordiamo Leonardo Del Vecchio, oggi patron di Luxottica, Angelo Rizzoli che uscirà dall’istituto nel 1905, con un diploma da tipografo e fonderà la famosa casa editrice, ed Edoardo Bianchi, fondatore della fabbrica di biciclette. Anche il regista Franco Zeffirelli, figlio illegittimo, è stato ospite di un convitto per un breve periodo, ma dell’Istituto degli Innocenti di Firenze.

L’Istituto Martinitt viene fondato nel XVI secolo grazie all’opera caritatevole di Gerolamo Emiliani, il figlio di un senatore veneziano che, liberato dalla prigionia di guerra, quando rientrò a Venezia devolse tutti i suoi averi ai poveri e radunò gli orfani della città in una sua proprietà. Quando Francesco Sforza venne a conoscenza di questo suo atto decise di offrirgli la possibilità di portare gli orfani milanesi nell’oratorio di S. Martino. È così che i ragazzi orfani vennero chiamati Martinit(t), mentre le ragazze venivano chiamate Stelline.

Intervistato, un educatore del tempo racconta un fatto molto commovente: «Un episodio carino che mi viene in mente riguarda Valentino, un bambino famoso qui dentro: mi girava intorno con fare circospetto allora gli chiedo cosa voleva e mi dice: ‘Una cartolina’, gli dico: ‘Ce ne sono tante! Prendile’. Poi mi guarda e mi dice: ‘Ma me la posso scrivere a me’? ‘Come da te’? ‘Sì perché non mi scrive mai nessuno’. Allora gli scrissi io e altre persone, e lui era così soddisfatto che qualcuno di ricordasse di lui…».

L’esperienza di Suor Lucia Sicuro

Dopo il boom degli anni ’60 e la possibilità del controllo delle nascite in Italia i parti diminuiscono notevolmente. Eppure gli orfani continuano ad essere numerosi.

Suor Lucia Sicuro, oggi a capo di una casa-famiglia, racconta la sua esperienza: «Un giorno vidi un ragazzo dell’istituto che aveva la febbre e stava da solo nel suo letto, nella penombra. Mi son resa conto che soffriva troppo. Allora chiesi alla madre superiora di fare un reparto tipo comunità con cucina, soggiorno e camera da letto, così da avere uno spazio familiare e autonomo per i ragazzi. Mi rendevo conto che per quei bambini piccoli ci voleva qualcosa di diverso. Un numero ridotto di persone, più attenzioni, affettività, cura personale. Ma lei mi disse: ‘No, non se ne parla proprio’. Verso il 1970 iniziarono a essere chiusi questi grandi istituti e a formarsi nuove forme di assistenza: le case famiglia. In quel periodo esce la legge 184 dove si inizia a parlare del diritto dei bambini di far parte di una famiglia. Allora nell’89 chiesi di essere mandata a Napoli con il mandato di metter su una comunità famigliare, ed eccomi qui. È un lavoro duro però alla fine quando si vedono i risultati la fatica non c?è più».

e quella di Liliana Pagano

Liliana Pagano, la responsabile della casa-famiglia di Napoli racconta: «Sono più di vent’anni che faccio questa esperienza. Arrivano bambini in condizioni terribili, maltrattati, talvolta pieni di pidocchi o sporchi di feci. Qui sono passati 130 bambini e quando stanno qui sono praticamente come i miei figli: ho voluto tenerli tutti uniti perché ho pensato che separando la mia famiglia dalla casa-famiglia non avrei fatto bene nessuna delle due cose».

A questo proposito suo figlio, Mario, ci confessa: «Quando ero piccolo e vedevo mamma con un altro bambino in braccio mi ingelosivo, le dicevo: ‘Mamma ma non sono io l’unico tuo bambino’? Poi crescendo ho iniziato a capire la situazione, quindi questa gelosia è passata. Tanto è vero che ai bambini di quattro anni che magari hanno bisogno di dire ‘mamma’ io gli dico che la possono chiamare mamma».

Riguardo all’educazione Liliana afferma: «I bambini che arrivano e dicono parolacce, sputano, sono scalmanati e parlano napoletano, piano piano ci osservano e cambiano. Io non ho mai detto a un bambino devi fare questo, devi fare quello, né mai dato ordini. Per un po’ non parlano e poi però tirano fuori quelle parole storpiate mezze in italiano che ci fanno tanto ridere e poi man mano si modellano da soli, osservando gli altri’».

Attualmente

Attualmente la legge cerca di accentuare la formula dell’affidamento famigliare: più di 17mila bambini sono stati inseriti in una famiglia, ma per un periodo di tempo non superiore ai due anni. L’affido infatti, come detto, ha tra le peculiarità il fatto di essere ‘temporaneo’. Il problema è che dopo il periodo dell’affido i bambini che tornano a vivere con i propri genitori sono pochissimi, per cui la maggior parte di loro torna nelle strutture d’accoglienza dove continuano l’esperienza dell’abbandono per anni, spesso fino alla maggiore età.

La formula dell’affidamento famigliare ha evidenziato in passato non pochi problemi: le prime esperienze risalgono alla fine degli anni ’60 quando un numero considerevole di orfani viene affidato ad altrettante famiglie che però molte volte erano interessate più al compenso economico che il bambino portava con sé, che alla carità. Ma oggi le cose sono cambiate, come ci dice Marco Griffini, il Presidente dell’associazione ‘Amici dei bambini’: «Noi abbiamo tantissime famiglie affidatarie che sono disposte a non volere una lira, non sono i soldi il problema. L’affido non è decollato non per problemi economici, ma perché tutto è in mano ancora al servizio pubblico, il quale non è in grado, purtroppo, di aiutare le famiglie che hanno bisogno non tanto dello psicologo e del sociologo ma di una rete di assistenza. Di media la Lombardia prevede 120 euro al giorno per un bambino in un centro di accoglienza, sono tremila euro al mese, quindi quello che manca è una cosa fondamentale che invece non costa niente: un padre e una madre!».

Giovanna Da Molin, dell’Università di Bari, aggiunge: «Se ci riferiamo all’Italia esiste ancora l’emergenza abbandono. Il bambino è abbandonato anche se è ben vestito, alimentato. È abbandonato perché è solo, senza sentimento, senza relazione». E ancora Griffini: «Questi bambini, ma anche quelli in affido, vivono ogni giorno l’esperienza dell’abbandono, ma vivono anche la speranza di essere figli, la speranza di dormire nel proprio letto o nel letto della mamma». 

Inoltre per lo Stato le comunità sono un grande onere, vengono spesi infatti fino a 300 euro al giorno a bambino (in media 120-150 euro, a seconda della regione), mentre alle famiglie affidatarie viene dato un contributo mensile che va dai 400 agli 800 euro. Quindi lo Stato italiano investe 10mila euro l’anno per ogni bambino accolto in un centro, mentre per un minore in affidamento viene stanziata esattamente la metà. Eppure però l’affido in una famiglia ‘vera’ è ancora troppo poco sviluppato. «Il punto è che l’affido familiare non è decollato – dice Marco Griffini – I fortunati che sono in affido, poi, poco più di 10mila secondo le nostre stime, tendono a rimanerci per anni. La legge è fallita, si è preferito riconvertire gli istituti in piccole comunità e basta».

Il problema dell’adozione

Come spiega Antonio Diliberto: «La comunità, secondo la legge, dovrebbe essere concepita come un luogo di passaggio, dove il minore che sta in una situazione di emergenza si inserisce. Poi però se possibile il minore deve ritornare in una famiglia, o in un altro luogo che non sia la comunità. Lo stato di adozione è uno degli strumenti, ma il nostro Stato ci dice che è l’ultimo che deve essere utilizzato».

Così però, sono molti, troppi, i bambini che continuano e sentirsi soli. Negli ultimi anni il dato sui bambini adottabili in Italia è piuttosto stabile: circa 1.200 bambini dichiarati in stato di abbandono.

Adottare un bambino in Italia non è facile: ogni anno vengono aperte 3mila procedure per dichiarare lo stato di abbandono, ma di questi bambini solo 800 possono essere adottati. Il paradosso è che ci sono invece 50mila famiglie italiane che vorrebbero adottare un figlio, ma la burocrazia e le difficoltà le costringono a farlo all’estero. Il vero problema è che intorno all’adozione ci sono ancora tanti pregiudizi.

Secondo i dati Istat nel 2003 le coppie che hanno richiesto l’adozione di un minore italiano e/o straniero sono state 7.602. Di queste, il 67,8% ha presentato contestualmente domanda di adozione nazionale e internazionale, il 19% soltanto quella nazionale ed il restante 13,2% soltanto quella internazionale. Ma quante di queste richieste siano state accolte a un cittadino ‘normale’ non è dato sapere.

Marco Griffini: «Il bambino abbandonato non vive questo taglio dell’adozione, il bambino abbandonato vuole essere un figlio. Ci sono questi miti tremendi che sono dentro di noi, fin dentro di noi, il mito della famiglia d’origine e il mito dell’assistenza che non ci permettono di vedere bene la realtà. Le leggi le abbiamo ma qui le leggi non sono più sufficienti, qui occorre proprio cambiare radicalmente cultura. 50mila famiglie italiane oggi aspettano di poter dare l’amore di un padre e di una madre a questi bambini».

video
play-sharp-fill

Leggi anche:

REPORT – Un occhio di riguardo

Ad aprile di tre anni fa eravamo in pieno lockdown...

Report – La frazione di Prosecco

Dal 2009 un decreto ministeriale ha stabilito che l’uva chiamata prosecco per legge sin dal 1969 dovesse cambiare nome e diventare glera.

Lascia un commento