All’inizio del ‘900, circa un milione di siciliani abbandonò le proprie terre per trasferirsi negli States, in special modo a New York, città che, già dal 1870, era legata a Palermo grazie al commercio di agrumi. In mezzo alle centinaia di migliaia di emigranti, vi furono molti “uomini d’onore” che nella Grande Mela trovarono terreno fertile per le proprie attività delinquenziali; in particolar modo il traffico dei prodotti commerciali divenne una prerogativa italiana, le banchine dei porti di New York parlavano siciliano.
Per decenni Cosa Nostra in America regnò indisturbata, il gangsterismo si configurò come una potenza occulta e feroce, in rapida crescita, mentre, in Sicilia, le famiglie d’onore venivano tartassate dal regime di Mussolini e vivevano in uno stato di profonda crisi in concomitanza della Seconda Guerra Mondiale. E proprio in questo contesto vi fu il primo vero e documentato approccio del governo americano alla mafia.
Il 9 febbraio 1942, infatti, un ex transatlantico trasformato in unità di trasporto truppe, la Normandie, prese misteriosamente fuoco e si capovolse alle foci dell’Hudson. Subito si pensò che si fosse trattato di un sabotaggio e i primi ad essere additati come colpevoli furono gli italo-americani di New York.
Per far luce sull’incidente, dunque, la Marina degli Stati Uniti decise di entrare in contatto con la mafia che controllava i docks del porto.
Così, su raccomandazione di due boss, Joseph Socks Lanza e Meyer “Little Man” Lansky, gli ufficiali dell’US Navy contattarono Charles Lucky Luciano, già in carcere.
Lui, considerato il padre moderno del crimine organizzato, primo boss ufficiale della famiglia Genovese, dall’alto del suo potere, era in grado di cambiare le sorti della guerra. E così, spinto dal patriottismo e dalla solidarietà verso i “cugini” mafiosi siciliani, vessati da Mussolini, Luciano decise di collaborare con le autorità e fece in modo che i porti Newyorkesi si schierassero dalla parte degli Alleati.
Un aiuto incredibile, grazie cui gli americani si resero effettivamente conto di quanto fosse importante avere dalla propria parte la mafia.
Per questo, durante la preparazione dell’Operazione Husky, decisero di rivolgersi nuovamente a Luciano, stavolta tramite l’Oss, l’Office of Strategic Service, precursore della più nota Cia.
Luciano, in cambio della grazia, mise in moto una serie di trattative che si videro compiute il 10 luglio del 1943, quando gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia.
Lì trovarono un terreno favorevole per l’occupazione, proprio grazie alle famiglie mafiose contattate da Cosa Nostra Americana.
Nel frattempo, l’agente Max Corvo, diretto referente di Allen Dulles, alto funzionario dell’Oss, formò un’unità militare denominata “the mafia circle”, grazie alle raccomandazioni di Luciano: tra i contatti “celebri” si contavano personalità quali il boss Vito Genovese e i finanzieri Michele Sindona e Licio Gelli.
Grazie al loro contributo, i servizi segreti americani riuscirono a raggiungere le prigioni siciliane e liberarono circa 850 mafiosi per arruolarli. Una volta terminata la guerra, nella sola provincia di Palermo, almeno 62 di essi vennero nominati sindaci.
Il legame con Luciano, nello spaccato della Seconda Guerra Mondiale, non fu certo l’unico ambiguo, per Dulles. Nello stesso periodo, infatti, l’alto funzionario mantenne contatti anche con il generale delle SS, Karl Wolff, che comandava i contingenti della Gestapo in Italia. Un rapporto scottante, che si vide compiuto nei negoziati dell’Operazione Sunrise.
In base ad essi, le forze naziste sarebbero state “graziate” dagli americani, in cambio del loro appoggio nella battaglia pre-pianificata atta a sconfiggere la minaccia sovietica. Cioè la Guerra Fredda.
Al tempo stesso, per permettere ai nazisti di salvarsi, Dulles consigliò a Wolff di avvalersi delle “ratlines”, le vie di fuga del Vaticano. Quelle stesse vie che furono poi utilizzate da Cosa Nostra, negli anni ’80, per il contrabbando di droga in America, l’ormai celebre operazione “Pizza Connection” su cui indagò anche Falcone.
Non deve sorprendere l’affinità della Santa Sede con la Cia: molti illustri membri dell’agenzia segreta americana erano anche Cavalieri dello Smom, meglio conosciuto come Ordine dei Cavalieri di Malta, da sempre ritenuto il braccio armato del Vaticano.
Fu così che, in nome degli accordi presi con gli Usa, gli ormai ex nazisti si spostarono tutti verso l’America Latina, laddove combatterono la minaccia comunista, allestendo di fatto il terreno per la Guerra Fredda.
Non molto diverso fu il panorama in Europa, in cui il lavoro preparatorio aveva stabilito di rovesciare o contrastare i governi eletti democraticamente attraverso una rete (unità Stay Behind) equipaggiata con uomini fascisti, in Italia organizzata sotto l’egida dell’Organizzazione Gladio, voluta prevalentemente dalla Nato.
Nel nostro paese, la Gladio venne costituita il 26 novembre del 1956, con un protocollo di intesa tra servizi segreti italiani e americani.
Si trattava di un’organizzazione atta a bloccare qualsivoglia invasione sovietica nel Paese. Nel 1972, questa struttura, che sorse in Sicilia, si collegò indissolubilmente al Sid (Servizio Informazioni e Difesa) di Vito Miceli.
Erano gli anni in cui Gladio iniziava a potenziarsi: nascevano nuclei indipendenti, tra cui quello della neofascista Rosa dei Venti, coinvolto in numerosi atti eversivi, non in ultimo il celebre “Golpe Borghese”.
Il primo a parlare di Gladio fu l’ex terrorista Vincenzo Vinciguerra, accusato della strage di Peteano. Nel 1984, all’interno del processo della strage di Bologna, l’uomo parlò apertamente di una struttura occulta nelle forze armate italiane, che era stata in grado di coordinare le varie stragi per evitare che il paese si spostasse troppo a sinistra; questo, sempre secondo la testimonianza dell’ex terrorista, a nome della Nato e con il supporto dei servizi segreti e di alcune forze politiche e militari italiane.
E’ interessante notare come il perito balistico Marco Morin, che si occupò della strage di Peteano, nonché dell’omicidio Moro e di quello Dalla Chiesa, risultò essere legato all’organizzazione Gladio e, secondo il giudice Felice Casson, falsificò la perizia per nascondere come le armi utilizzate nella strage provenissero proprio dai depositi di Gladio.
Nello stesso procedimento per la strage di Bologna, Gian Adelio Maletti, l’ex capo Reparto “D” del Sid, venne accusato di depistaggio delle indagini, come anche Licio Gelli.
Nel 2001, in un’intervista, il generale dichiarò come, ai tempi, esistesse una “regia internazionale” delle stragi, relativa alla strategia della tensione, e come la Cia finanziasse sia il Sid che Gladio.
Intanto, il Sid aveva formato una “altra Gladio”, ben più celata. Su di essa scrisse Paolo Biondani: Una struttura mista militari/civili, parallela alla rete ‘Stay Behind’, con obiettivi analoghi ma con protagonisti diversi: nuovi nomi, ancora top secret, di presunti responsabili di operazioni coperte che i magistrati collegano alla strategia della tensione degli anni 1969-1974. Un’organizzazione che agiva sotto una sigla pseudo istituzionale, ‘NucleididifesadelloStato‘, della quale finora nessuna autorità aveva mai parlato, neppure dopo la divulgazione degli elenchi dei 622 gladiatori ‘ufficiali’”.
Sei anni dopo le allusioni di Vinciguerra, nel 1990, Giulio Andreotti rese pubblica l’esistenza di Gladio.
Si disse che era una struttura atta a contrastare la criminalità organizzata. Nello stesso anno morì Miceli e due magistrati militari aprirono un’inchiesta per far luce sui misteri legati all’unità “Stay Behind” siciliana.
Conducendo indagini, risalirono a diversi fascicoli archiviati dai Servizi. In essi si leggeva chiaramente come la Cia rivestisse un ruolo di primo piano nella vicenda.
L’agenzia americana raccomandava ai Servizi italiani di mantenere il segreto su Gladio: “si dovrebbe sapere solo che ha il compito di creare quadri di guerriglieri destinati a svolgere attività armata contro l’occupante. Avrebbe poca importanza che le strutture Sios, i servizi segreti delle singole armi, vengano a conoscenza di questi compiti, l’importante è che pensino che i nominativi che forniscono sono destinati a questo scopo soltanto” Inoltre, la Cia si sarebbe posta in prima linea per rendere operativo il tutto: “nostra cura creare altri due livelli organizzativi, che sarebbero di nostra esclusiva conoscenza nei quali immettere a varie tappe coloro che abbiano dato buona prova”.
Sempre nel 1990 l’ex agente della Cia Richard Brenneke, raccontò di come l’agenzia, ai tempi, avesse pagato ingenti somme a Licio Gelli affinché mettesse in moto una serie di stragi, in maniera tale da far sprofondare l’Italia nel terrore.
Lui, Gelli, entrato in contatto con gli americani dopo le raccomandazioni di Lucky Luciano durante la Seconda Guerra Mondiale, è una figura chiave di questi anni. I suoi rapporti con l’Agenzia segreta vennero rinforzati dalla sua collaborazione con Ronal Rewald, fondatore dell’Istituto finanziario Bishop, Baldwin, Rewald, Dillingham & Wong con base alle Hawaii, una società della CIA che poi divenne la Banca Nugan Hand, di proprietà della CIA stessa.
Al tempo stesso, Gelli fu Maestro Venerabile della lista Propaganda 2, la celebre P2. La stretta connessione tra l’operazione Gladio e la loggia massonica la esplicò lui stesso in un’intervista del febbraio 2011, in cui dichiarò: “Io avevo la P2, Cossiga la Gladio, Andreotti l’Anello”. Erano, tutti e tre, apparati “segreti”, anelli di congiunzione tra la società civile e gli 007.
Sulla figura di Gelli si concentrò anche il giudice bolognese Libero Mancuso, secondo cui, in Italia, operava un’unica centrale criminale, una sorta di holding in grado di mettere d’accordo tutti, raccogliendo fondi e investendo in aree, settori e uomini. In questo contesto, l’imprenditore si configurava come l’uomo di raccordo tra tutti i protagonisti: servizi segreti, mafia, massoneria, Vaticano, estremismo neofascista.
Il potere di Gelli, in continua crescita, venne bruscamente interrotto nel 1979. I Servizi segreti americani scaricarono il massone, ormai troppo influente, inserendo, al suo posto, un faccendiere romano legato agli 007, Francesco Pazienza, anch’egli iscritto alla P2.
Il tutto rientrava in un piano di preparazione in vista del 1980, quando, secondo la Cia, si sarebbe verificata una vera e propria rivoluzione, a cui Gladio avrebbe dovuto rispondere potenziandosi e modificandosi. Si parlava, cioè, del golpe di Michele Sindona.
Raccomandato dal boss Luciano esattamente come Gelli, Sindona fu uno dei più potenti e corrotti massoni coinvolti nel “ Gioco Grande”. I suoi primi guai cominciarono nel 1967, quando, dopo aver comprato la Banca Privata Finanziaria, l’Interpol lo segnalò come implicato nel riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di stupefacenti, gestito da Cosa Nostra americana: numerosi boss, d’altronde, erano suoi soci.
Nel 1969 Sindona s’associò alla banca vaticana, lo Ior, e, attraverso essa, fece trasferire enormi somme in Svizzera. Nel frattempo, tramite una serie di libretti al portatore, trasferì 2 miliardi di lire nelle casse della Democrazia Cristiana, mentre parecchi milioni di lire transitarono attraverso la CIA, la Franklin Bank e il SID per finanziare, secondo la commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti, la campagna elettorale di 21 politici italiani.
Nonostante fosse stato più volte definito da Giulio Andreotti “il salvatore della Lira”, Sindona, nel 1974, spinse la Banca Privata Italiana in bancarotta per frode e cattiva gestione.
Per questo venne ordinato un commissario liquidatore, Giorgio Ambrosoli, che assunse la direzione dell’istituto e, nel frattempo, esaminò tutte le trame occulte e criminose con cui il finanziere Sindona aveva cercato, negli anni, di salvare il banco.
Un’indagine che gli costò la vita: nel ’79 venne ucciso dal sicario legato a Cosa Nostra americana William Jospeh Aricò (accusato di aver freddato, cento giorni prima, il giornalista Mino Pecorelli) su mandato di Michele Sindona.
L’intento del finanziere era quello di nascondere le tracce di come avesse investito il denaro sporco di boss mafiosi della portata di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Rosario Spatola.
Gli stessi con cui, nello stesso 1979, il finanziere tentò il golpe: si recò in Sicilia cercando di convincere le cosche a scindere l’isola dal resto dell’Italia, per consegnarla in mano alle famiglie mafiose e alla P2, dove trovava spazio anche Umberto Ortolani, membro del consiglio interno dei Cavalieri di Malta, e considerato “il grande apri porta Vaticano”.
Sindona era collegato a un’altra figura di spicco, di questi anni: Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano, una banca privata, strettamente legata allo Ior. Proprio grazie a Gelli e Sindona, Calvi entrò nella P2.
Quando, al finire degli anni ’70, il Banco si trovò ad affrontare una crisi di liquidità, Calvi domandò aiuto a Eni e a Bnl, che finanziarono circa 150 milioni di dollari. Nel 1980, a una seconda crisi, l’uomo pagò tangenti a Claudio Martelli e a Bettino Craxi affinché la Eni tornasse a erogare stanziamenti per il Banco Ambrosiano.
Nel 1981 esplose il caso della P2; Calvi, ormai in rotta anche con Sindona, rimase senza protezione e, nell’estremo tentativo di appianare il debito del Banco Ambrosiamo, strinse rapporti con Flavio Carboni, finanziere legato a personalità del calibro di Gelli, Pippo Calò e i membri della banda della Magliana.
Amicizie pericolose, che giocarono un grosso peso nel suo destino. Nel 1982, il banchiere venne ritrovato impiccato a Londra, appeso sotto il ponte dei Frati Neri, apparentemente suicida.
Secondo la vedova, il vero capo della P2 era Andreotti, il quale avrebbe fatto uccidere l’uomo.
Effettivamente, prima di partire per Londra, Calvi incontrò il politico, ma al riguardo non si sa altro. Nel frattempo, in Italia, fu aperta un’inchiesta, basata sulle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia.
Tra queste, quella di Francesco Marino Mannoia, il quale sostenne che Calvi e Gelli avevano investito denaro sporco nello Ior e nell’Ambrosiano per conto del boss mafioso.
Al riguardo dichiarò: “Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò. Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile.” Una versione contestata da Francesco Di Carlo, il quale negò di essere l’assassino, pur ammettendo che gli fosse stato domandato. Ma, sottolineò il pentito, “la questione venne risolta con i napoletani”.
Antonino Giuffrè, un altro pentito, sposò questa tesi, spiegando come i camorristi legati ai Corleonesi (di cui Calò curava gli interessi) si fossero affidati a Calvi per i propri investimenti, e che dunque, una volta perso tutto, volessero vendicarsi.
E ancora, il collaboratore Pasquale Galasso raccontò di come l’esecutore materiale dell’omicidio fosse Vincenzo Casillo, che doveva un favore a Pippo Calò, mentre Antonio Mancini, membro della banda Magliana, specificò che, oltre al boss mafioso, l’altro mandante dell’assassinio era Flavio Carboni.
Non di poca rilevanza, inoltre, è il fatto che Roberto Calvi, su richiesta del Vaticano, finanziò “paesi e associazioni politico-religiose” in America Latina “allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filomarxiste”.
Cioè, collaborava parallelamente all’operazione Sunrise voluta dalla Cia.
Un altro membro della potente loggia fu Eugenio Cefis. Fu lui, dal suo ruolo di presidente dell’Eni, ad aiutare Roberto Calvi quando l’Ambrosiano riversava in gravi condizioni economiche.
Imprenditore potentissimo, fu al centro di un libro inchiesta di Pier Paolo Pasolini. In questo volume, il regista, poco prima della misteriosa morte, ipotizzò che Cefis avesse avuto un ruolo nello stragismo legato alle trame internazionali. Inoltre, Pasolini lo indicò come principale sospettato nell’ambito della morte del suo predecessore e fondatore dell’Eni, Enrico Mattei.
Sulla morte di Mattei ritorna ancora la Cia, così come Cosa Nostra.
L’onorevole Oronzo Reale affermò come il mandante dell’assassinio fosse Cefis, dopo che Mattei scoprì che era manovrato dagli agenti segreti americani. Ma, al tempo stesso, un’altra ipotesi è stata mossa negli anni, ossia quella che vede nel fondatore dell’Eni un nemico per le “sette sorelle”, le compagnie petrolifere più ricche del mondo che domandarono dunque a Cosa Nostra di eliminare il rivale. Una tesi sostenuta da pentiti di mafia come Gaetano Iannì e Tommaso Buscetta, nonché da un agente del KGB di stanza in Italia negli anni ’60, Leonid Kolossov.
Anche un eventuale intervento della Cia pare non poter essere preso sotto gamba: l’agenzia, proprio nei giorni in cui si verificò l’attentato contro Mattei, era impegnata in una fase cruciale della Guerra Fredda e, di conseguenza, aveva buone ragioni per sperare nella morte dell’imprenditore, che con la Russia aveva allestito una linea commerciale, rompendo di fatto l’embargo politico.
Quel che è certo è che, il 27 ottobre 1962, il più potente manager di stato italiano venne ucciso dall’esplosione di una bomba sull’aeroplano privato su cui viaggiava. Venne aperta un’inchiesta, condotta dal pm Vincenzo Calia, il quale, durante le indagini, rintracciò anche un appunto del Sismi, nel quale veniva illustrato il ruolo di Cefis nella P2: ne era il fondatore.
Precedentemente a Pasolini, anche il giornalista Mauro De Mauro si interessò alla morte di Mattei, prima di sparire nel nulla.
Ufficialmente è stato ucciso dalla mafia, come almeno altri due personaggi noti che si occuparono del caso: Boris Giuliano e Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Quest’ultimo, nel particolare, prima di essere ucciso da Cosa Nostra, si era occupato, tra gli altri casi, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, il quale aveva sollevato seri dubbi su ciò che Gladio compiva in Italia, tanto da citare l’organizzazione nei suoi memoriali. E non stupirà sapere che le carte relative al sequestro del politico, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, sparirono inspiegabilmente dopo l’attentato che gli strappò la vita.
Dopo Moro e Dalla Chiesa, un altro personaggio si interessò all’unità “stay behind” italiana: Giovanni Falcone. Il magistrato voleva approfondire l’incidenza di Gladio nei delitti politici di Palermo degli ultimi anni, tra cui quello di La Torre, di Reina e di Mattarella.
Aveva inoltre supposto che dietro la morte del giornalista Mauro Rostagno potessero celarsi gli agenti segreti, visto e considerato che, durante le sue indagini, il cronista si era imbattuto in verità scottanti riguardo il contrabbando di droga e di armi con l’Africa.
Verità talmente sconvolgenti da aver persino richiesto, prima di morire, un colloquio con Falcone, presumibilmente riguardante la base operativa Centro Scorpione, una propaggine di Gladio, a Trapani, creata nell’87.
Per l’omicidio di Rostagno, avvenuto nell’88, fu sospettato come mandante il boss trapanese Vincenzo Virga, colui che, pochi anni dopo, fu incaricato dal boss Riina di procurare gli esplosivi per le stragi e da Marcello Dell’Utri di trattare il recupero di un credito di Publitalia con la Pallacanestro Trapani. Lo stesso mafioso è anche mandante della strage di Pizzolungo.
E’ interessante notare come Rostagno avesse scoperto casualmente i traffici verso il Continente Nero, laddove, pochi anni dopo, nel marzo 1994, sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose Ilaria Alpi.
Inviata in Somalia a seguire in prima persona la guerra civile e per indagare sul traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali, probabilmente scoprì che nella questione erano coinvolti anche i servizi segreti, come confermato successivamente da alcuni pentiti.
Altresì, riveste i contorni di oscuro presagio il fatto che, nel novembre precedente, era stato ucciso, sempre in Somalia, l’informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, capo del Centro Scorpione.
Scrisse Alfio Caruso: “Che bel mistero quel Centro Scorpione, ufficialmente incaricato di contrastare dal basso Mediterraneo l’arrivo dell’Armata Rossa, viceversa invischiato in combinazioni poco chiare, talmente cieco – ma è possibile? – da non accorgersi che da Trapani per otto anni sono transitati tutti i carichi di missili, di esplosivo, di mine, di granate diretti verso l’Iran e l’Iraq, impegnatissimi a scannarsi vicendevolmente.”
Falcone iniziò a sospettare qualcosa. Ritenne che esistessero strutture segretissime all’interno di Cosa nostra “con finalità ancora ignote ma certamente di enorme portata“.
Trovò prove inoppugnabili di come la mafia fosse stata interpellata per salvare Aldo Moro, nonché collegamenti tra omicidi celebri e massoneria: su tutti Pierluigi Concutelli, assassino di Occorsio, tessera 4070 della Loggia Camea di Palermo. Ma, quando il giudice provò ad indagare sul Centro Scorpione di Trapani, gli venne impedito. Il procuratore Pietro Giammanco gli comunicò che avrebbe preferito condurre lui quell’inchiesta e il magistrato si trasferì a Roma, divenendo direttore degli affari penali, accettando il posto offerto da Martelli.
Non per questo smise di interessarsi a Gladio e al Centro Scorpione.Fu la sua ultima indagine, sebbene non ufficiale.
Conservò tutti gli appunti sul suo computer, forse arrivò veramente vicino alla verità. Così tanto che divenne impellente la necessità di eliminarlo.
Il 23 maggio 1992, a Capaci, Falcone venne ammazzato e, con lui, la moglie e alcuni uomini della scorta. Nei cieli volava anche un piper sconosciuto, probabilmente dei Servizi.
Poche ore dopo, qualcuno s’introdusse nell’ufficio del magistrato e manomise i dati su Gladio …
Gea Ceccarelli 2 aprile 2013