La Facoltà dei veleni

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 E’ la storia balzata solo di recente agli onori della cronaca come la “Facoltà dei veleni. La conoscete ??

Una vicenda dannata, orribile ed al tempo stesso incredibile, una vicenda che nessuno ha voluto raccontare, taciuta per anni al solo scopo di non infangare il buon nome della Facoltà di Farmacia dell’Università di Catania.

Una strage silenziosa che doveva restare nascosta, nonostante avesse intaccato indelebilmente di dolore le vite di tanti giovani e delle loro famiglie.

Maria Concetta, Emanuele, Agata, Marianna, Giovanni, Agostino, Rosario, Cristian, sono solo alcuni nomi di chi non c’è più !! Ma c’è anche chi un nome non l’ha mai avuto, come il feto di Valeria, incinta al sesto mese, abortito per mancanza di ossigenazione.

Scriveva Emanuele «nei corridoi del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche la presenza di armadi metallici contenenti sostanze e reattivi chimici, sprovvisti di un sistema di filtrazione ed aspirazione idoneo, provocava la continua presenza di odori sgradevoli e notevolmente tossici. Dopo aver trascorso l’intera giornata in laboratorio, avvertivo spesso mal di testa, astenia ed un sapore strano nel palato come se fossi intossicato.»

La follia dei giovani universitari costretti a studiare, a fare ricerca in un Paese come l’Italia che ricatta e divora i suoi figli, tradisce il loro entusiasmo, li avvelena ed li uccide nel modo più bieco, quello dei pericoli nascosti nelle cose che amano di più.

Il grido dei racconti è nei diari di chi in quelle aule ha perso la speranza, la giovinezza, gli anni più belli, ma mai l’amore per la ricerca.

E’ pur vero che su ambiente e salute si alza la tensione ogni giorno nel nostro Paese e quello che ne viene è un teatrino triste quanto tragico, l’Ilva, la Terra dei Fuochi ne sono un esempio.

Cosa accadeva nel Dipartimento degli orrori? Emanule Patané, ricercatore presso la Facoltà di farmacia è morto alla fine del 2003 a 29 anni, dopo aver affidato ad un memoriale, quanto accadeva nei 120 mq del laboratorio.

Sostanze sversate nei lavandini, odori strani, mancanza di protezione. Livelli di inquinamento più alti addirittura di quelli industriali, nel mezzo, la malattia, il calvario e la morte. 

Le indagini tecniche hanno accertato l’esistenza nel sottosuolo di pericolose sostanze inquinanti in valori superiori di decine ed, in alcuni casi, centinaia di volte ai limiti fissati per i siti industriali.

 Per non abbassare la guardia, occorre che tutti si sentano responsabili, a partire da chi usa la parola scritta, perché le parole possono diventare armi in questo paese che avvelena.

 Il 7 gennaio 2014, la Rai ha trasmesso il documentario “Con il fiato sospeso“, una rivisitazione dei fatti basata sulle testimonianze e sui luoghi interessati.

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 Sono venuto casualmente a conoscenza dei fatti, sbirciando in internet, ma vi lascio le parole della mamma di Valeria, scolpite in questa lettera :

Lettera inviata al direttore del giornale LA SICILIA il 21 giugno 2011, consegnata alla segretaria del direttore e mai pubblicata.

Egregio Direttore,
Sono la mamma della Dr.ssa Agata ANNINO, la capolista di quella serie di nomi di persone che hanno lavorato all’interno della Facoltà di Farmacia dell’Università di Catania ed hanno accusato patologie tumorali o sono decedute a causa di dette patologie, come è il caso della mia Agata che proprio all’inizio di questo mese di Giugno, esattamente il 3, ha compiuto sei anni dalla sua morte.
Perché le scrivo?
La mia se vogliamo è una lettera di sfogo perché sono otto anni, sei dalla sua morte e due di malattia, che piango in silenzio e cerco di sopravvivere, e con me i miei familiari, all’immane dolore che la perdita di una figlia, o di una sorella, comporta. Una figlia che tu stessa hai dovuto accompagnare ad affrontare in piena lucidità il trapasso quando era ancora nel pieno del suo vigore.
Agata aveva 30 anni quando abbiamo scoperto pochi giorni prima degli esami finali di dottorato (dopo un terribile mal di testa che non passava più) che aveva un tumore cerebrale di quelli che non perdonano. Era il 23 febbraio del 2003, ha festeggiato i sui 30 anni dopo due interventi chirurgici il 2 maggio dello stesso anno. Costretta a saltare la sessione di esami del suo ciclo di dottorato, ha voluto poi caparbiamente sostenere gli esami finali l’anno successivo, interrompendo per pochi giorni le cure di radioterapia a cui era sottoposta a Milano.
Era una ragazza piena di vita, niente la stancava mai, amava il suo lavoro di ricerca in quel laboratorio che adesso io definisco maledetto ma che per qualche tempo non riuscivo ad odiare sia perché ricordavo con quanta passione, dedizione e allegria lei lo frequentava e sia perché mi rifiutavo di credere che potesse essere vero quello che, dopo la morte di mia figlia, si andava dicendo sull’incuria e sulla leggerezza con cui si gestivano e si smaltivano all’interno di quei laboratori prodotti chimici che invece necessitano della massima cura ed attenzione perché altamente nocivi alla salute.
Sono una persona dignitosa che ha svolto sempre il suo lavoro di docente in un Istituto Superiore di Catania ed ha sentito sempre la sua responsabilità nei confronti dei ragazzi che le famiglie affidano all’istituzione scolastica, ho vegliato sempre sulla loro incolumità, perché il diritto alla salute è un diritto primario ed inalienabile.
Per questo non volevo credere, mi veniva difficile pensare che un’Istituzione grande e rinomata come la nostra storica Università avesse potuto trascurare a tal punto la sicurezza di qui luoghi di lavoro a danno del proprio personale. Pensavo: “E’ l’ennesimo scandalo italiano, i giornalisti sono sempre alla ricerca della notizia che fa scalpore!” Lentamente io, mio marito, gli altri due figli abbiamo voluto dare una ragione logica alla morte di Agata: purtroppo la morte, le malattie nella vita di ognuno sono sempre in agguato e ci possono cogliere in qualsiasi momento anche a 32 anni, nel pieno vigore degli anni.
Stavamo così trovando un po’ di equilibrio per continuare a vivere quando è scoppiato lo scandalo della chiusura dei locali della Facoltà di Farmacia, e allora per noi tutto si è messo di nuovo in discussione: si può accettare in silenzio la morte di tua figlia, quando un tarlo ti rode il cervello dicendoti che forse te l’hanno ammazzata, quella figlia? No, non si può!
Egregio Direttore, torno al motivo di questa mia lettera. E’ fortemente doloroso rendersi conto che in fondo nel nostro mondo, nella nostra società, qui nella nostra città non si vuole che le cose cambino perché altrimenti una vicenda come questa troverebbe il giusto spazio nei mezzi d’informazione e quindi anche nel suo giornale, se solo si avesse a cuore il bene della nostra terra e dei suoi amati figli, nobili e generosi come i nostri ragazzi che con il Dottorato di Ricerca si sono giocati la vita.
Lei sa, perché ha pubblicato la notizia qualche tempo fa, che l’indagine probatoria si è chiusa e che giorno 8 Luglio ci sarà l’udienza preliminare per il rinvio a giudizio di 13 responsabili all’interno dell’Ateneo catanese per i reati di disastro ambientale, violazione delle norme di sicurezza, falso.
Come mai tanto silenzio da parte vostra e di altra stampa ad una notizia così clamorosa? Vogliamo ancora salvare il “buon nome” della nostra Università, come hanno sempre fatto i signori di là dentro? Svegliamoci, il “buon nome” si salva con un lavoro onesto, dignitoso e rispettoso della legalità.
La ringrazio per la pazienza ed il tempo che mi ha dedicato, nell’attesa di leggera la mia lettera sul suo giornale e possibilmente di tanto in tanto qualche articolo per ricordare ai catanesi, e non solo, che chi gioca con la vita delle persone non può e non deve sperare di uscirne indenne.
Noi eravamo una famiglia felice dei nostri tre figli, due laureate, il terzo si avviava alla laurea, sognavano un futuro sereno e invece per noi non c’è più cosa o avvenimento che ci possa dare mai una gioia piena.
Catania, 21 giugno 2011
Cordiali saluti e di nuovo grazie
Prof.ssa Maria Lopes, la mamma di Agata

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