L’immagine è stata scattata a Port-au Prince, Capitale di Haiti, a distanza di qualche giorno dal terrificante terremoto verificatosi alle 16.59 del 12 gennaio 2010. La scossa tellurica, avvenuta in uno dei Paesi più poveri del mondo, ha provocato la morte di oltre 200 mila abitanti.
Un’immagine scioccante, cruda, che entra dentro il nostro stomaco come la lama di un coltello. Un infermiere, oberato di cadaveri in un centro di assistenza che si occupa dello smaltimento dei corpi, dopo averlo recuperato e visionato, getta il cadavere di un bambino dall’apparente età 7/8 anni nel mucchio scomposto delle altre vite perdute.
In quel mucchio si opererà per lo smaltimento di quelli che oramai sono rifiuti, destinati a decomporsi nel giro di qualche ora e a dare problemi sanitari, malattie.
Un bambino, morto come migliaia di altri, forse l’intera sua famiglia è stata distrutta e lui ha abbassato lo sguardo per sempre senza accorgersi di nulla, senza poter pensare che il suo futuro non sarebbe mai esistito, che la sua vita si sarebbe fermata per sempre.
Il fotografo ha colto l’attimo, il volo senza grazia del cadavere, lanciato come un fantoccio, un manichino inutile, nella discarica vicina al supermercato. Quando la morte diventa fenomeno collettivo, si perde anche il pudore dell’omaggio alla gabbia dell’anima. Trapassata irrimediabilmente la vita, non ha importanza ciò che rimane, perché ciò che rimane è soltanto un’ombra senza mestizia.
In quel volo senza ali è racchiusa la crudeltà del mondo contemporaneo ed il nostro disinteresse verso le catastrofi degli altri. Eppure, quel bambino una qualche spiegazione ce la chiederà, prima o poi. Saranno domande alle quali non sapremo dare alcuna risposta.
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