Quando gli italiani erano Steve Jobs

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Il primo computer da tavolo è stato il Programma 101 dell’Olivetti, nel 1964. Concepito a Ivrea dall’ingegner Perotto, ne esportammo negli Stati Uniti quarantamila in un solo anno. Gli americani provarono anche a copiarlo. E lo fecero. Ma la Hewlett Packard perse la causa e fu costretta a pagare 900.000 dollari di risarcimento. Oltre che intelligente era bello, un totem in grado di scatenare il piacere di possederlo. Il vestito era stato disegnato da un designer, Mario Bellini, che racconta di una telefonata ricevuta anni dopo:  era un certo Steve Jobs e lo chiamava a lavorare alla Apple. Ma lui dovette dire no.

Aveva un nome, Programma 101, un soprannome, “Perottina”, e un destino: diventare il primo computer da tavolo del mondo.

Perottina era stata realizzata partendo da un modello in plastilina (non essendoci i personal computer non c’erano neanche i rendering).

Nell’anno di grazia 1965 vede la luce il primo desktop della storia. Viene presentato negli Stati Uniti, in una fiera specializzata, e il New York Times si esprime in termini più che lusinghieri.

Il 15 ottobre 1965 il quotidiano americano dà conto dell’arrivo sul mercato di due macchine che chiama «calcolatori da tavolo»: una della Victor Comptometer e una, per l’appunto, dell’Olivetti. Questa seconda è definita «più costosa, ma in grado di svolgere più funzioni».

«La Programma 101», continua il giornale, «come un computer può automaticamente far girare programmi in grado di svolgere una serie di operazioni aritmetiche. Può anche conservare e ricordare questi programmi, sia al proprio interno, sia all’esterno, e attraverso di loro può prendere semplici decisioni logiche». E poi ancora: «Le sue numerose funzioni ne consentono un utilizzo sia scientifico, sia per business».

Il costo di questa meraviglia tecnologica era di 3.200 dollari Usa, pari a circa 17.000 euro di oggi ma, nonostante il prezzo, nel 1966 il mercato statunitense ne assorbe oltre 40.000 pezzi.

Fino ad allora quelli che in Italia venivano chiamati “cervelli elettronici” erano enormi impianti che dovevano essere utilizzati da personale specializzato. La novità rivoluzionaria della Programma 101 è che sta su un tavolo e può essere usata da chiunque per effettuare operazioni complicate, per esempio il calcolo degli stipendi. Ma intanto succede che la statunitense Hewlett Packard ne compra un centinaio di esemplari, li copia e li immette sul mercato. L’Olivetti le fa causa, accusandola di violare il brevetto, e vince pure. L’Hp è condannata a versare un risarcimento di 900.000 dollari Usa alla società di Ivrea, ma alla sconfitta in tribunale corrisponde una vittoria sul mercato che vedrà trionfare gli americani e soccombere gli italiani (la vicenda è narrata in un documentario dal titolo Quando Olivetti inventò il Pc, andato in onda in giugno su Sky).

Il papà del primo computer da tavolo è un ingegnere torinese, nato nel 1930, laureato al Politecnico della sua città e morto a Genova nel 2002. Pier Giorgio Perotto entra alla Fiat nel 1955 e proprio lì comincia a interessarsi di computer. Un paio d’anni dopo passa all’Olivetti, e nel 1962 comincia a lavorare al progetto di una macchina per elaborare dati che sia piccola a sufficienza per stare in ogni ufficio e anche programmabile, dotata di memoria, flessibile e semplice da usare.

Nel frattempo, però, l’Olivetti subisce importanti modifiche societarie: disinveste nell’elettronica e cede il 75% della divisione, assieme a tutto il personale, alla General Electric. Perotto invece no: rimane a Ivrea col suo piccolo gruppo e continua a lavorare al progetto; nel 1964 il prototipo della Programma 101 è pronto.

Mario Bellini, il designer che le dette la forma, se lo ricorda bene quando fu incaricato di “vestire” l’apparecchio. «Avevo cominciato da poco a collaborare con l’Olivetti, nel 1963», racconta, «e avevo già realizzato una macchina che aveva vinto il Compasso d’oro. Sono stato chiamato una domenica da Roberto Olivetti nella sua casa milanese di Foro Bonaparte. C’erano lui e l’ingegner Perotto, avevano in mano un primo tentativo di corpo del quale però non erano soddisfatti. Olivetti mi ha chiesto se sarei stato contento di occuparmi della cosa e io gli ho detto di sì. Andavo a Ivrea, in alcuni locali che mi avevano messo a disposizione. Lavoravo a questa macchina che non doveva essere a colonna, innalzandosi da terra, come il primo prototipo.

La grande intuizione che avevano avuto Olivetti e Perotto era che dovesse essere una macchina da tavolo. Ho cominciato a lavorarci e l’ho fatta diventare una macchina da tavolo».

Doveva «addomesticare il mostro», come dice oggi l’architetto, e descrive come ha concepito il nuovo oggetto: «Sul retro c’era un cassettone di schede stampate con i transistor – al tempo non esistevano ancora i microchip – la parte anteriore era quella che si metteva in comunicazione con l’operatore. A sinistra ho messo i tasti e sulla destra uno spazio specifico in cui si infilava la scheda. Sopra c’era una parte che saliva, con le spie luminose che indicavano quando era in funzione. Se fosse stato un animale, quella sarebbe stata la testa. Sulla parte anteriore, in continuità con la tastiera c’era una specie di becco, in modo da permettere di appoggiare il palmo della mano e usare le dita per digitare. Abbiamo realizzato un modello al vero di plastilina, mettendoci sopra ogni sera uno straccio umido perché non si seccasse; poi un modello in legno, con i tasti e lo abbiamo presentato a Olivetti e Perotto che ne sono rimasti molto soddisfatti».

Eccolo qua, il primo desktop del mondo, frutto del sapere e del genio italiani, della collaborazione tra un ingegnere e un architetto. Oltreoceano qualcun altro si rende conto che quella novità è dirompente. Passa qualche anno e Mario Bellini riceve una telefonata. Dall’altro capo del filo c’è un ancor giovane e non molto conosciuto Steve Jobs. «Ho ricevuto una telefonata personale di Jobs», racconta l’architetto, «che mi chiedeva se volevo disegnare per loro. Gli ho risposto che avevo un contratto di consulenza esclusiva con Olivetti e pertanto non potevo collaborare con lui». Rimpianti? Una grande occasione mancata? «Ho vissuto ancora altri 15 anni di straordinarie avventure. Olivetti aveva un prestigio immenso, era invidiata anche da Ibm».
E secondo Bellini tra Apple e Olivetti c’è una relazione stretta. Jobs, come prima la casa di Ivrea, hanno creato «totem in grado di scatenare il piacere di possederli». Apple è «l’erede più fortunato di Olivetti: hanno costruito cose analoghe, ma Jobs lo ha fatto negli Usa e non in Italia», conclude Mario Bellini, «e questa è la differenza».

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