di Padre Maurizio Patriciello.
Si chiamava Marco ed era una persona down.
Una di quelle persone cui tanta gente, per paura, per egoismo o per malcelata pietà, vieta sul sorgere l’ingresso nella vita. I genitori lo accolsero 45 anni fa e ne fecero il centro della loro esistenza.
Iniziarono a vivere girando intorno a lui, alle sue esigenze, ai suoi limiti. Impararono a interpretarne le sofferenze, i capricci, i gesti. Marco, infatti, non ha mai parlato.
Suo padre, ragioniere, divideva la sua giornata tra la casa e il lavoro in una piccola azienda. Un giorno ebbe un malore sull’autobus.
Morì poco dopo in ospedale.
Marco rimase solo con la mamma, una valente pianista. Insieme passavano lunghe ore seduti al pianoforte. Lei faceva scivolare con perizia le dita sulla tastiera e lui, felice, con le manine goffe, ne imitava i gesti. Un cruccio tormentava la malinconica signora: «Che fine farà mio figlio quando non ci sarò più?».
Quando quel giorno giunse, per Marco si aprirono le porte di un istituto.
Nella casa di cura, però, il ragazzo si incupiva sempre di più. Rifiutava di mangiare e non riusciva a relazionarsi con nessuno. In breve tempo andò perdendo quel minimo di indipendenza che aveva raggiunto grazie all’amore perseverante dei genitori.
Don Giorgio, invece, è un giovane prete. Discreto, buono, disponibile, molto attento alle creature più fragili e indifese. Trascorre le giornate tra l’ospedale, dove svolge il suo ministero, e la piccola comunità di sorelle e fratelli diversamente abili che ha fondato. Un giorno incontra Marco e intuisce il motivo del suo malessere.
Il ragazzo tenta, a modo suo, di comunicare che la nuova sistemazione non gli piace. Don Giorgio va a trovarlo spesso, gli diventa amico e si chiede che cosa può fare per lui.
Poi decide.
Chiede e ottiene dalle autorità competenti di poterlo avere in affido e crea intorno a lui un circolo di volontari che se ne prenderanno cura. Prende in affitto un piccolo appartamento e riesce a ricostruire la sua vecchia stanza, con i suoi mobili, gli oggetti cui era legato, i suoi giocattoli.
Ma è il pianoforte della mamma, ritrovato per miracolo su una vecchia soffitta, l’oggetto che ridona al giovane la voglia di continuare a vivere. Seduto alla tastiera, don Giorgio passava lunghe ore a suonare, mentre al suo fianco l’amico strimpellava, come faceva un tempo con la mamma.
Marco ha vissuto giorni felici. Aveva ritrovato la sua casa, il suo ambiente, le sue cose. Ma, soprattutto, poteva riassaporare le coccole, le attenzioni, le carezze di sempre che tanto gli mancavano. Ogni tanto don Giorgio gli appoggiava il capo sulla spalla permettendogli di poterlo abbracciare. Parlavano un linguaggio tutto loro. Un giorno, seduti al tavolo di un bar, sorseggiavamo un caffè insieme. Mi accorgevo con immenso piacere che la gente intorno (soprattutto giovani) ci guardava con tenerezza e simpatia. Ad un tratto il mio confratello mi sussurrò:
«Sai? Marco è stato capace di trasformare la mia vita di prete e quella degli amici volontari che mi aiutano ad accudirlo …».
Un giorno don Giorgio mi telefona.
Attimi di silenzio.
Un sospiro.
Un singhiozzo.
Capisco che c’è qualcosa che non và. Poi:
«Volevo dirti che Marco … questa mattina … un infarto … all’improvviso … è dura …».
Il giorno dopo partecipo al funerale celebrato da don Giorgio.
Un giorno andiamo insieme al cimitero. La tomba di Marco è ricoperta di fiori. Ci fermiamo a pregare. Non so perché, mi ritorna in mente una poesia imparata da bambino: “La morte del cardellino”.
Il poeta, dalla finestra della sua camera, vede un bambino piangere a singhiozzi il suo cardellino mentre lo sotterra. Il cuore gli si intenerisce e scrive:
«Chi pur ieri cantava, tutto spocchia, e saltellava, caro a Tita, è morto. Tita singhiozza forte in mezzo all’orto, e gli risponde il grillo e la ranocchia. La nonna s’alza e lascia la conocchia, per consolare il nipotino smorto: invano! Tita, che non sa conforto, guarda la salma sulle sue ginocchia. Poi, con le mani, nella zolla rossa, scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo d’asfodeli, di menta e lupinella. Ben io vorrei sentire sulla fossa della mia pace il pianto di quel bimbo. Piccolo morto, la tua morte è bella!».
Marco se ne è andato.
Sereno.
Oserei dire, contento.
Don Giorgio ha reso felici i suoi ultimi anni. Gli ha donato e ricevuto amore. Oggi lo piange, assieme alla comunità. Un piccolo fatto di vangelo vissuto. Troppo bello per passare inosservato. Senza volerlo, fissando la foto di Marco, mi ritrovo a sussurrare:
«Piccolo amico, la tua morte è bella».