Perché Israele si sente minacciato dagli operatori umanitari?

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… traduzione in italiano di Sara Martellacci.

Il fermo da parte di Israele e il divieto di entrare nel paese per gli occidentali, siano essi attivisti, accademici o operatori umanitari solidali con i palestinesi, ha ricevuto particolare attenzione negli ultimi anni, focalizzandosi soprattutto su figure di grande rilievo, come Richard Falk, Norman Finkelstein e Noam Chomsky.

Nella prima settimana di Febbraio stavo per ricevere da Israele il termine della mia pratica di fermo, quando ho provato ad entrare in Cisgiordania, occupata, dalla Giordania, attraverso la frontiera di Allenby Bridge.

Una volta arrivata sul lato della frontiera controllato da Israele, sono stata trattenuta ed interrogata per dodici ore, prima che l’entrata mi venisse negata e che fossi rimandata ad Amman.

Mi è stato inoltre vietato per cinque anni di entrare in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Le autorità israeliane inoltre hanno fermato e interrogato la mia amica e compagna di viaggio, che non aveva mai visitato prima la regione.

Per coloro che seguono l’evoluzione degli eventi in Palestina la mia esperienza non suonerà una novità: storie di repressioni arbitrarie e immotivate sono tristemente all’ordine del giorno.

L’opacità, l’assenza di procedimenti legali e la mancanza di riguardi per i diritti umani, che caratterizzano le pratiche di detenzione israeliane, sono tipiche anche delle azioni delle autorità di occupazione in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est – occupata) e a Gaza.

Se il governo israeliano si fa apertamente beffe delle risoluzioni delle Nazioni Unite, ignorandole, sarà difficile poter avere riguardi per il diritto alla privacy dei viaggiatori.
Inoltre, le maniere in cui sono stata trattenuta ed interrogata rimangono importanti per ciò che rivelano sull’occupazione israeliana e su come questa continua ad operare nel 2014.

Opacità

Fondamentalmente, il fermo israeliano di viaggiatori “indesiderabili” porta a una visione terrificante di ciò che milioni di palestinesi vivono ogni giorno, senza avere la protezione di un passaporto occidentale.
Alla fine, la paura e l’orrore più grandi della mia esperienza consistevano nel sapere che la cosa peggiore che le autorità israeliane avrebbero potuto farmi era trattenermi e eventualmente, espellermi. I palestinesi non hanno questa garanzia.

Inoltre, durante il mio fermo e i tanti interrogatori, mi sono trovata faccia a faccia con l’impunità e l’inspiegabilità del sistema, mantenute attraverso la strada dell’opacità più totale.

Una nota superficiale ma simbolica: tutto il personale israeliano di occupazione porta un badge con informazioni scritte solo in ebraico – una lingua che la maggior parte dei fermati e dei viaggiatori attraverso le frontiere non sa leggere.

Non ci è stata data nessuna informazione o spiegazione su ciò che stava succedendo.

Nessun ricorso

Quando sono stata finalmente informata che mi era stato vietato l’accesso, una delle motivazioni addotta è stata “alcune informazioni che abbiamo trovato”. La mia richiesta di ulteriori dettagli è stata ignorata.

Come saprà chiunque sia passato da un checkpoint in Cisgiordania, queste impunità e arbitrarietà sono parte centrale del funzionamento e di come esercita il potere l’occupazione.

Il tempo che ciascuno deve aspettare e che a una persona sia concesso oppure no di entrare troppo spesso dipendono dallo stato d’animo e dal carattere del funzionario a lavoro.

L’entrata può essere negata senza motivo e, quando accade, nessun ricorso può servire.

Il mio fermo è anche indicativo di come, tra i bersagli di Israele, siano aumentate le ONG.

Ero stata precedentemente volontaria a Betlemme un un programma organizzato da una ONG britannica; più recentemente, ho lavorato per la Medical Aid for Palestinians (MAP), che ha sede a Londra.

Coloro che mi interrogavano mi hanno fatto a lungo domande su questo lavoro, impegnandosi particolarmente per spingermi a rivelare nomi e dettagli dei palestinesi che avevo conosciuto in Cisgiordania (con grande disappunto dei funzionari israeliani, non sono stata in grado di obbedire, poiché praticamente tutti i Palestinesi che conosco vivono adesso in diaspora).

Erano inoltre interessati al mio lavoro come giornalista e mi hanno interrogata sugli articoli che avevo scritto in precedenza per “The Electronic Intifada”

Mentre pensavo che uno stato, di fronte a supposte serie minacce alla sua sicurezza, potesse avere un funzionalmento migliore delle sue risorse piuttosto che interrogare un operatore umanitario londinese, è stato interessante scoprire come ogni lavoro con i palestinesi sia guardato con durezza.

Non sorprendentemente, invece, il mio impiego attuale con un organizzazione per la lotta alla povertà che opera in Africa sub sahariana, è stato oggetto di poco interesse.

Repressione strategica

Una nota simile: il fermo di operatori umanitari internazionali è parte di una repressione strategica dell’attivismo non violento: è chiaro da come sono stata trattata che i funzionari della frontiera non pensavano che io rappresentassi una minaccia fisica.

Sono stata perquisita ma non costretta a spogliarmi e i miei bagagli sono stati solo controllati regolarmente. Nonostante fossi sottoposta a fermo, interrogata e controllata, non sono stata bloccata fisicamente.

La maggior parte del tempo potevo camminare attraverso la sala d’attesa e andare in bagno senza che nessuna guardia mi accompagnasse.

Dopo 12 ore gli israeliani hanno annunciato che a lei era permesso entrare, sebbene abbia poi scelto di tornare anche lei in Giordania.

Questo trattamento contrasta con l’idea, che i funzionari di frontiera potevano genuinamente supporre, che potessi rappresentare un pericolo fisico. E’ invece apparso che la minaccia intellettuale fosse di maggiore importanza.

Insicurezza

Alla fine, il comportamento del personale di frontiera israeliano nei riguardi dei discendenti occidentali degli arabi può essere visto come un microcosmo della grande noncuranza con cui Israele gestisce quotidianamente le proprie relazioni internazionali

Come cittadina del Regno Unito, ricordo bene la questione che ha riempito i titoli dei giornali quattro anni fa, quando emerse che membri del Mossad avevano compiuto rapimenti e assassini a Dubai con passaporti inglesi, usando identità rubate a persone che viaggiavano attraverso l’aeroporto Ben Gurion, vicino a Tel Aviv.

L’incidente suscitò una furia senza precedenti: l’allora segretario degli Esteri David Miliband pronunciò affermazioni durissime e espulse un diplomatico israeliano da Londra. 

Subito dopo, il ministero degli esteri emanò nuove linee guida, allertando i cittadini britannici a non separarsi dai loro passaporti al momento dei controlli alla frontiera israeliana.

Malgrado l’incidente diplomatico con un supposto alleato, politiche identiche continuano ad operare in Israele.

Nonostante l’apparente dimostrazione di forza, centrale nelle pratiche di fermo, ciò che, in ultima analisi, ha dimostrato la mia esperienza è l’insicurezza che giace nel cuore dello stato di Israele.

Le democrazie robuste non solo tollerano le critiche, queste sono anzi benvenute, come parte della libertà di espressione.

Siamo soliti sentir parlare di Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, in accordo con la totale gamma delle definizioni. Almeno per ora, queste definizioni continuano ad essere stiracchiate fino ad essere irriconoscibili.

Anne Irfan è laureata in Storia del Medio Oriente. Risiede a Londra e lavora nello sviluppo internazionale

fonte : http://electronicintifada.net/content/why-does-israel-feel-threatened-humanitarian-workers/13192

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