Negli ospedali di Semipalatinsk, in Kazakhstan, vegetano migliaia di vittime degli esperimenti nucleari sovietici.
Sono storpi, sono ebeti e stanno morendo senza aver mai conosciuto la vita.
Attenzione, contiene immagini che possono toccare la vostra suscettibilità, sono nascoste dietro i link dei nomi dei veri protagonisti
SEMIPALATINSK. C’è un bambino cieco che canta “Bella ciao” ma i suoi occhi verdi straordinariamente aperti e la sua voce esprimono un’arcana felicità.
Ci sono bambini che hanno paura e stanno raggricciati sotto il proprio lettino, seminudi, e non sanno se sono vivi o sono morti ma certamente sperano che tutto finisca in fretta, perché non hanno fame e non hanno sete e il loro cervello non funziona e non sanno perché sono venuti al mondo. Ci sono ragazzi e adulti inebetiti, gli occhi spalancati in uno stupore metafisico.
Neanche Samuel Beckett, con il suo odio infinito per la vita, avrebbe potuto descriverli aspettando Godot.
Nessun Dio dall’alto di tutti i cieli, all’Est o all’Ovest, ha avuto pietà per loro. Li hanno semplicemente condannati a morte, senza nessuna colpa. Stanno nell’anticamera dell’inferno e piangono e ridono e defecano e pisciano in attesa di un paradiso che non ci sarà mai.
Sono caduti, sono perduti, sono piegati, sono storpi, sono ebeti e stanno morendo senza aver mai conosciuto un solo bene della vita. Sono le vittime degli esperimenti nucleari che i sovietici hanno fatto dal ’49 al ’90 in questa loro remota provincia del Kazakhstan (ai confini con la Cina) per assicurarsi il primato della potenza distruttiva nel mondo e fottere l’America.
Il regime è caduto col muro di Berlino e adesso possono vantare al mondo solo questi relitti dell’umanità. Da un ospedale all’ altro, da un orfanotrofio all’altro, da un manicomio all’altro con un’angoscia che sarà difficile cancellare.
Volete una via crucis?
E allora cominciate voi dolci signore dell’umanità, pii frati francescani dei fioretti, insulsi e verbosi ecologi del radicalismo verde a visitare l’orfanotrofio del Kazakhstan, a Semipalatinsk, dove la dottoressa Natalya Barisnovna vi prenderà per mano per fare un giro dei padiglioni. Ci sono ottantasei ragazzi, la maggior parte vittime delle radiazioni.
Volete sapere come stanno Mastya, o Tanya, o Madina, o Alexander, o la piccola Tolganai ? Bene, la piccola Tolganai ha la testa piena di croste rosse e gialle, nei suoi dieci mesi di vita ha conosciuto soltanto la pena e quando io passo accanto al suo lettino lei si alza e si butta tra le sbarre, e singhiozza per una sofferenza di cui non conosce la causa. «Morirà presto» dice l’infermiera «a giorni», e non c’è davvero nessuno al mondo che possa augurarle niente di meglio.
Zhannoor sta accartocciato nel letto, le sue gambe sono due stecchini accavallati, ma in maniera strana, i piedi gli stanno sopra l’ombelico. È un vegetale e non riesce a parlare con nessuno.
In un letto vicino c’è Mastya, mi dicono che ha poco più di un anno. È paralizzata dalla vita in giù. Ha il viso bellissimo di questa terra, che è dolce e immensa. Ma quando l’accarezzo, è come presa dal terrore, come ricordasse qualcuno che, toccandola, le ha fatto male. Ma si rassicura quando le accarezzo ancora il viso: ha capito in un attimo che le voglio bene e allora i suoi occhi kazakhi orientali si spalancano in un sorriso di una incredibile tenerezza e a me viene il magone e me la vorrei portare a casa, lei nella sua povera culla di ferro, da cui non uscirà mai viva.
Questa regione è stata un calvario. Gli esperimenti nucleari, sottoterra e nell’atmosfera, hanno fatto mezzo milione di malati radioattivi, e molti di loro, ai tempi di Stalin, erano proprio delle cavie umane. Il piccolo grande padre dell’URSS voleva accertarsi fino a che punto quell’arma micidiale avrebbe potuto annientare l’umanità. Dal ’49 al ’90 sono esplose in questo limbo dell’universo 500 bombe al plutonio che hanno punito la popolazione locale, per quasi cinquant’anni, col cancro, la leucemia, le malattie di cuore, deformità e cecità.
Solo nell’ agosto del ’91 il presidente del Kazakhstan, diventato indipendente, Nursultan Nazarbayev, ha decretato la chiusura del poligono atomico ex sovietico di Semipalatinsk Kurciatov.
Ma il danno era stato fatto. Nel villaggio di Sarjal (1500 abitanti) nascono 44 bambini che sono dei mostri.
Molti ragazzi si sono impiccati perchè la vita, con le menomazioni che gli avevano inflitto (fisiche e psicologiche), non gli riservava più nulla. Poveri vecchi si sono gettati, con l’ultimo calore dell’ultima bottiglia di vodka, nel ghiaccio dei torrenti in notti di immacolatissima neve, quando la temperatura scendeva ai 15° sottozero.
Io mi faccio una vacanza dentro questa disperazione. Sotto un cielo che è sempre imbronciato ma dolce, col colore viola della malinconia al tramonto. Ma gli scienziati mi dicono di non lasciarmi cullare da questa visione tolstoiana della natura benefica, perchè lo zinco, i fosfati, l’intero sottosuolo portano in alto dosi massicce di questi veleni che sono stati seminati nel cuore profondo della Russia. E se quindi piove, non ti basta più l’ ombrello, perchè dentro ogni goccia d’acqua ci potrebbe essere un avvertimento di morte.
La morte è a portata di mano nell’ospedale per incurabili di Semipalatinsk. Lo chiamano orfanotrofio anche se i suoi pazienti vanno dai 18 ai 50 anni. Nessuno di loro uscirà vivo da questo albergo della disperazione.
Sono 450 persone, la maggior parte vittime delle radiazioni. Appena entri, vedi un’iscrizione del loro maggior poeta, il bardo del Kazakhstan, Abai. «Sii generoso come un fratello e spartisci la tua ricchezza, sii onesto e decente e scaccia dal tuo cuore i pensieri cattivi».
Tu sei un grande poeta, Abai, e quando scendo dal mio albergo e mi inoltro nella piazza di Semipalatinsk vedo il tuo ritratto e davanti a te ci sono bellissime aiuole di fiori. Ma tu hai cantato la tua terra in un tempo sbagliato, poi sono venuti gli zar e i bolscevichi e vi hanno cancellato dalla geografia. Il tuo ritratto è dovunque, ma la moneta del tuo Paese, ricchissimo nel sottosuolo, non vale più nulla.
Con gli esperimenti nucleari, i russi vi hanno fatto un grande sgarbo. Nell’ospedale che visito, in almeno due stanze, non c’è speranza di vita. Sono accatastati come povere bestie e immagino che a mezzogiorno e alla sera gli diano qualcosa da mangiare e da bere.
Nella stanza dove entro, gli uomini sono seduti per terra ma non sono più uomini: mi sembrano un pò divertiti da questa apparizione “marziana”, ma non dicono nulla e il fotografo Luigi Baldelli ritrae la loro disperazione, uno dopo l’altro, incamerandoli nell’obbiettivo e loro stanno zitti e ci guardano da una lontananza infinita, come fossimo noi gli esseri strani, venuti da un altro pianeta.
«Non guariranno mai» mi dice il direttore dell’ospedale, Tantoley «qui entrano e qui muoiono. Sono sette anni che vivo qui e non ho mai visto nessuno uscire vivo e sano da questo ospedale. Non sono un medico, sono il curatore di un cimitero. Non ci sono malati, c’è solo gente condannata all’estinzione».
Sono già affranto quando intraprendo questo viaggio nella disperazione in villaggi su cui ha piovuto la morte. Ecco Znamenka, a una settantina di chilometri da Semipalatinsk, dove incontro Syzykov Berik, 16 anni, che ha gli occhi otturati da due polpette di carne e beve la birra da quel buco che è diventato la sua bocca e che tuttavia mi sembra felice nella enorme disgrazia e anzi ci ride e quasi ci canta sopra aspirando in segreto una sigaretta, perchè il suo papà e la sua mamma lo vogliono senza vizi fino all’eternità.
Znamenka è triste in questa pianura immensa che ha solo rapporti col cielo e Berik è come una delle sue capre e dei suoi cavalli e delle sue mucche e potrebbe quasi imitare il loro linguaggio nell’infamia fisica in cui lo ha cacciato indelebilmente la guerra delle grandi potenze: però io so che se lui riuscisse a esprimersi, lo farebbe come il belato di una delle pecore che come lui sono state atrofizzate dalla guerra atomica e lo accarezzo e sto dentro in questo suo atroce bellissimo recinto rurale con una pena che non mi passa e non mi passerà mai più.
Andiamo verso Ayaguz, un villaggio a circa 300 chilometri dalla Cina, per vedere come fa a sopravvivere la gente dopo l’olocausto elettronico.
Lì i bambini dai 5 ai 16 anni sono tutti diventati pazzi. Ce ne sono centoventi nel Children Hospital tra i malati di mente. Quasi tutti vittime delle radiazioni. Solo il 2 o il 3 per cento potrà essere recuperato. Gli altri moriranno di follia, inebetiti dalle stelle feroci che le grandi potenze gli hanno inserito nell’organismo.
Nei padiglioni dell’ospedale di Ayaguz ci sono, diciamo, tre livelli di pazzia.
Nel primo vedi bambini teneri e dolci come il ragazzo cieco che cantava “Bella ciao”. Poi, man mano, vedi gente annichilita e distrutta: sono i malati gravi e i medici e gli infermieri ti consigliano di non avvicinarli perchè sono aggressivi. In effetti vedi le teste rasate e occhiate dure di gente che non riesce a capire la tua presenza.
Francamente io ho avuto paura e dopo anni che ho cercato di affondare lo sguardo nell’intimo della sofferenza del mondo, non ce l’ho fatta.
Ho lasciato che se ne occupasse Luigi, il fotografo, che ha avvicinato tutta quella umanità da vicino e l’ha immagazzinata nel cuore del suo obbiettivo.
Il martirio di questa terra mi ha quasi paralizzato. Non so perchè questo possa succedere a un antico viaggiatore come me. Ho visto e vissuto tragedie in altre parti del mondo. Ma qui il mio vecchio cuore è scoppiato. Avrei dovuto sapere che la perfidia umana non ha limiti e non mi vergogno neanche di dire che sono scoppiato a piangere più di una volta.
Ho accarezzato le teste rapate di questi bambini smarriti che mi sorridevano e mi sono molto pentito di non sapere nè il russo nè il kazakho per accompagnare con una mia parola una carezza.
Poi sono andato nella casa, a Semipalatinsk, dove Dostoevskij ha abitato, dal ’57 al ’59, dopo aver fatto quattro anni di prigione. Lo zar lo aveva condannato a morte perchè anarchico e perchè , con Gogol’ , aveva scritto un messaggio furioso contro la tratta degli schiavi.
A Semipalatinsk ha fatto quattro anni di carcere e ha dormito su un letto di legno. Adesso un museo racconta tutte queste storie e la signora Lidia me le racconta tutte per filo e per segno. Poi mi porta nella casa dove lui aveva abitato per due anni ed era diventato, ormai ligio al potere, un ufficiale dell’esercito regio. C’è anche una foto di lui, piccolo, minuto, calvo, tutti i capelli che aveva perduto sulla testa affluiti nella barba.
Nelle bacheche ci sono le prime edizioni di “Delitto e castigo” e “Le notti bianche”. Avrei voluto accarezzarle ma ho potuto accarezzare solo il vetro. Poi Lidia mi ha portato nella casa dove lui aveva abitato e scritto per due anni, un piano solo, le persiane verdi. Mi sono seduto sulla sua sedia, davanti alla sua scrivania. Ho aperto i cassetti ma non c’era niente.
Sulla scrivania c’erano due calamai vuoti e due candele perchè, mi ha detto Lidia, lui scriveva solo di notte. Sulla scrivania c’è la foto della sua prima moglie Maria. La scrivania è di legno massiccio, arabescato ma il piano è coperto da un tessuto marrone su cui ha lasciato due paginette vergate da lui.
Non so cosa dicono o di quale opera facciano parte. Mi basta accarezzare la scrivania per sentirmi felice. I test, sottoterra e nell’atmosfera, hanno fatto mezzo milione di malati radioattivi.
Dal ’49 al ’90 sono esplose in questo limbo dell’universo 500 bombe al plutonio che hanno punito la popolazione locale, per quasi cinquant’anni, col cancro, la leucemia, le malattie di cuore, le deformità.