Roberto Franceschi

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La sera del 23 gennaio 1973 era in programma un’assemblea del Movimento Studentesco presso l’Università Bocconi. Assemblee di questo tipo erano state fino ad allora autorizzate normalmente e non avevano mai dato adito a nessun incidente e, nel caso specifico, si trattava dell’aggiornamento di una assemblea già iniziata alcuni giorni prima.

Il Rettore dell’Università quella sera ordinò che potessero accedere solo studenti della Bocconi con il libretto universitario di riconoscimento, escludendo lavoratori o studenti di altre scuole o università. Ciò significava vietare l’assemblea e il Rettore informò la polizia, che intervenne, con un reparto della celere, intenzionata a far rispettare il divieto con la forza.

Ne nacque un breve scontro con gli studenti e i lavoratori e, mentre questi si allontanavano, poliziotti e funzionari spararono vari colpi d’arma da fuoco ad altezza d’uomo.

L’operaio Roberto Piacentini venne ferito alla schiena. Lo studente Roberto Franceschi, 20 anni, leader del Movimento Studentesco Bocconi, fu raggiunto alla nuca. Ricoverato in coma profondo, spirò il 30 gennaio. 

Entrambi caddero colpiti alle spalle.

 Crollati i tentativi di attribuire la morte di Roberto a un sasso lanciato dagli studenti, si verificò un rimbalzo di responsabilità fra il rettore e la questura, che modificò varie volte la propria versione.

Il capo della polizia, inviato a Milano dal Ministro dell’Interno Rumor, avallò la tesi che a sparare fosse stato l’agente Gallo, titolare della pistola omicida, in preda a raptus. Il processo accertò che Gallo non aveva esploso nemmeno un colpo né fu colto da raptus.

La trama di omertà intessuta attorno ai fatti, con inquinamento di prove, omissioni di accertamenti, sostituzioni di giudici inquirenti, mostrò chiaramente che si volevano coprire le responsabilità di questura, governo, autorità accademiche.

La vicenda giudiziaria si protrasse per oltre 20 anni, ma non arrivò alla condanna del responsabile. Grazie alla determinazione di familiari e avvocati, si accertò comunque che il colpo omicida era partito da uomini delle forze di polizia, che a sparare furono almeno in cinque e che l’atto si inquadrava in un impiego generalizzato delle armi da fuoco contro i manifestanti pur in assenza dei legittimi presupposti.

L’agente Gallo fu assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale; il brigadiere Puglisi e il capitano Savarese vennero condannati a 1 anno e 6 mesi con la condizionale per falso ideologico. Sostituirono cartucce dalle armi che avevano sparato redigendo poi un falso verbale.

Il processo contro il vicequestore Paolella, inchiodato da perizia chimica sugli indumenti e indicato da testimoni come colui che sparò contro i manifestanti, terminò, in appello, con l’assoluzione con formula piena.

Nel 1999, dopo varie vicissitudini giudiziarie, la causa civile promossa dai familiari contro il Ministero dell’Interno si concluse con la conferma del risarcimento di 600 milioni di lire, somma che permise di costituire la Fondazione Roberto Franceschi.

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