Il canone estetico di una società muta col mutare della società che lo produce. E succede così che una società che in pochi decenni attraversa una crisi energetica, un tentativo di guerra civile, l’avvento di un sistema economico schiacciante, la caduta di un blocco politico imperante, l’adesione ad una realtà transnazionale come quella europea, viva il sovvertimento dei propri canoni estetici.
L’Italia negli ultimi quarant’anni ha completamente cambiato volto. È mutato il suo assetto politico, si è trasformata la sua economia, ha rivisto il suo tessuto sociale e ha vissuto, insieme a tutto l’Occidente, l’incremento della qualità di vita, giungendo ad un livello impensabile anche solo vent’anni fa. Come noto, oggi si vive di più e meglio, con un’aspettativa di vita che sfiora, e ormai supera, la soglia degli 80 anni. Ma si procrea di meno. È inevitabile, vista la carenza (assenza, direi) nel nostro paese di politiche sociali a sostegno della famiglia e, non da ultimo, il progressivo posponimento degli eventi significativi nella vita dell’individuo: si esce di casa più tardi, si inizia a lavorare stabilmente più tardi, ci si sposa più tardi, ci si riproduce più tardi. Il risultato finale è un progressivo, costante invecchiamento della popolazione. I dati ci dicono che siamo il paese più vecchio d’Europa, specie se osserviamo l’età media di chi riveste posizioni di comando, quali politici, amministratori, imprenditori, “colletti bianchi”…
E se è vero che l’ideale estetico si identifica nei gruppi minoritari, e quindi in una società di grassi il magro è bello e in una di bassi l’altezza è metà bellezza, così in una società di vecchi il giovane è affascinante.
Il dramma però si realizza quando, ad una normale tendenza umana e ad un sintomatico processo sociale d’invecchiamento, si sommano l’alienazione culturale e la sopraffazione della forma sul contenuto imposte dall’industria della cultura di massa. È in quel momento che il bello non è più il giovane, ma il ringiovanito.
Tradotto in termini estetici, prevalgono quei modelli che rimandano ad una concezione infantile dell’individuo, e i primi a risentirne sono proprio i peli. Dalla barba alle braccia, passando per gambe, inguine, spalle e addome, il corpo umano diventa il campo di battaglia in cui si affrontano, senza esclusione di colpi alcuna, individuo e società, anticonformismo e consumismo.
Nasce così il culto dell’infantile, del bambinesco, addirittura dell’irresponsabilità e dell’anomia, intesa nel suo senso più etimologico di assenza di norme: incapacità di agire in autonomia, di assumersi responsabilità e, quindi, di scegliere.
Depilarsi a fondo significa dunque rendersi soggetti ad una alienazione che, oggi più che mai, è arrivata a pretendere il nostro stesso corpo nelle sue pieghe più intime, fino ad influenzare la nostra identità, a corromperla.
Viviamo in città popolate da innumerevoli Peter Pan imberbi o addirittura affetti da alopecia, ai quali è pressoché impossibile attribuire una seppur approssimativa età, e i cui comportamenti infantili son più sintomo di idiozia ed apatia che non di candida purezza verginea. Ed ecco perché il pelo, sia esso maschile o femminile, assume una veste di sottile ed intima eleganza: è l’abito di un individuo che non si piega all’infantilismo generale, che accetta il proprio corpo fino a farne una propria caratteristica peculiare. Il vestito dell’ individuo che resiste ai colpi di martellanti campagne pubblicitarie, di semplicistici film hollywoodiani, di siti pornografici di massa che costantemente condannano la naturale, e perciò elegante, estetica umana.