Il primo “genocidio” climatico

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Il suo nome in Europa è diventato famoso nel Capodanno del 2000: fu infatti il primo stato in assoluto ad accogliere il nuovo millennio e da lì questa piccola nazione oceanica è balzata agli onori delle cronache. Parliamo di Kiribati; si tratta di uno Stato formato da 33 isole, disposte in tre distinti arcipelaghi: le Isole Gilbert, le Isole della Fenice e le Isole della Linea. Si tratta dell’ultimo lembo di pianeta prima del cambio di data; per raggiungerlo dall’Italia, occorrono un giorno ed otto ore di volo, con tre cambi tra Dubai, Melbourne e poi ultimo aereo da prendere alle Isole Fiji che dopo tre ore porta dritti a Tarawa Sud, atollo dove sorge la capitale di Kiribati, Bairiki. Eccola la particolarità di questo Stato, per la verità condivisa con altri Stati vicini come le Isole Marshall o Tuvalu: la sua vita si svolte sugli atolli, ossia lembi di terra molto sottili, che rappresentano forme emerse di barriera corallina interrotti da alcuni canali che congiungono l’Oceano Pacifico con le lagune, le quali costituiscono invece la parte emersa di un ex cono vulcanico collassato dopo violente eruzioni. Ecco, la vita di Kiribati si svolge in queste strisce circondate dal Pacifico; spesso anche lunghe, ma certamente molto strette e soprattutto molto poco ‘alte’ e sta qui la minaccia per lo Stato oceanico.

Gli atolli infatti arrivano ad innalzarsi per appena due o tre metri; la vita di chi vi abita, è contrassegnata dal mare e da una continua ricerca di equilibrio con esso: se è troppo basso non si può pescare, se è troppo alto rischia di allagare villaggi e comunità. Il pericolo per Kiribati si chiama surriscaldamento climatico: come si sa, il costante aumento della temperatura, fa sciogliere i ghiacciai ed aumentare il livello dei mari e gli atolli di Kiribati potrebbero essere sommersi nel giro di 60 anni. Tarawa Sud, con i suoi 28mila abitanti ed una densità di popolazione pari a quella di Hong Kong e con le sue abitazioni, uffici, musei e scuole, rischia di andare sott’acqua, una vera Atlantide del ventunesimo secolo. Il paradiso tropicale oceanico, conta in tutto 110mila abitanti; non pochi considerando l’esiguità degli atolli e le difficoltà che una vita passata su un atollo possa rappresentare. Manca lo spazio materiale per praticare agricoltura, tutti i generi di prima necessità vengono importati ed arrivano dopo viaggi di intere settimane dall’Australia o dalla Nuova Zelanda, la pesca è di sostentamento ed il turismo soltanto adesso si sta diffondendo grazie ad alcuni voli settimanali che partono da Tarawa Sud verso le Fiji e Nauru. Eppure, i gilbertesi (nome con cui vengono chiamati gli abitanti di Kiribati, proveniente dal nome dato alle isole dai colonizzatori inglesi) adorano questi atolli: per loro rappresentano la vita, rappresentano un modo di vivere che va avanti da centinaia di generazioni, visto che la cultura di Kiribati ha origini di almeno duemila anni ed ha resistito tanto agli attacchi dei vicini quanto a quelli moderni del colonialismo occidentale.

Una cultura difesa anche dall’assalto giapponese durante la seconda guerra mondiale, i cui effetti si vedono ancora oggi nei tanti cannoni di contraerea abbandonati nelle spiagge paradisiache degli atolli e che rappresentano un’attrattiva turistica. Ma tale cultura, rischia di non sopravvivere all’innalzamento dei mari: se l’Oceano ‘mantiene le premesse’, sono guai seri per Kiribati e la sua cultura. Sparirebbero i suoi villaggi, le sue foreste, le sue piccole ma animate città; sparirebbe quindi un’intera nazione e sarebbe il primo caso di genocidio climatico.

Un intero popolo scomparso per via dei cambiamenti climatici, certamente non causati dai gilbertesi che incidono con lo 0% nelle emissioni di anidride carbonica a livello mondiale; Kiribati è lontana, ma l’umanità non può permettere la scomparsa oggi di terre che rappresentano la vita e la cultura di un popolo indipendente ed autodeterminato e rappresentante di millenni di storia. Il presidente di Kiribati, Anote Tong, nei mesi scorsi ha indicato un piano che fa letteralmente rabbrividire: trasferire tutti gli abitanti di Kiribati presso pezzi di terreno acquistati dal governo negli anni passati nelle isole Fiji. Secondo Tong, non ci sono le condizioni per rimanere visto che il mare divorerà tutto nei prossimi anni e bisogna solo prendere atto della realtà; il presidente gilbertese ha espresso questa dolorosa preoccupazione anche in sede ONU: a molti sembrava solo propaganda o provocazione ed invece il rischio è concreto. Chiaro che i gilbertesi in altra terra perderebbero tutto: addio alla loro Nazione, allo loro terra ed ai loro usi e costumi. Sarebbe la scomparsa di una cultura millenaria; secondo alcuni scienziati però, questa eventualità non è l’unica: potrebbe invece accadere, come nell’ultima era glaciale, che gli atolli salgano assieme all’oceano, facendo rimanere quindi a distanza di sicurezza il mare.

Il futuro solamente potrà dire cosa ne saranno degli atolli; intanto, ciò che preme sottolineare è come per la prima volta si prende in considerazione l’idea di spostamento coatto di un intero Stato nei territorio di un altro Stato. Uno scenario inquietante ed incredibile: Kiribati ha una sua storia dignitosa e frutto di secoli di vita vissuta negli atolli; farla sparire, vorrebbe significare senza ombra di dubbio mettere sulla coscienza di tutti una cultura importante e rappresentativa, significherebbe insomma il fatto che l’umanità lascia perire nell’indifferenza un intero popolo e tutto per via del clima. Anche se lontana, l’importanza della posta in palio per la sopravvivenza di Kiribati anche per le nostre parti è ben evidente: ‘Tairaki kaini Kiribati’, ‘Sempre in alto Kiribati’ tradotto in lingua locale; è il nome dell’inno di questa nazione, mai come oggi tanto azzeccato in senso figurativo e letterale. Sempre in alto Kiribati, nella speranza che la sua cultura e la vita sugli atolli possano essere difesi fino alla fine.

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